MOQ / Italia Online: Forum di Piero Proietti NUOVI
FILOSOFI Poche
novità offre la filosofia negli ultimi decenni e sempre più raramente
emergono figure capaci di attirare l'attenzione per la loro peculiare
attività d'indagine; ma, forse, occorre fare un'eccezione per il caso di
Robert Pirsig che, attraverso due volumi divulgati sotto l'apparente
genere narrativo, propone un'autentica riflessione filosofica. Nel
1974 il suddetto autore, ex professore di retorica in un college di
Bozeman e buon conoscitore del pensiero e della cultura orientali, riesce
a pubblicare il primo dei due volumi, dall'originale titolo Lo
Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta, testo che,
riportando la cronaca di un lungo viaggio in motocicletta attraverso gli
Stati Uniti D'America (da Minneapolis a San Francisco, passando per il
Montana, l’Oregon e la California), in realtà illustra una personale
ricognizione del protagonista intorno al concetto di "qualità",
spunto che dà il via alla fondazione di un'intera metafisica
sull'indagine conoscitiva. Contestualmente
scandaglia la personalità dello stesso protagonista, sotto cui si cela
l’autore, e ripercorre alcuni momenti salienti della sua vita
giustificanti la propensione al pensiero speculativo. Fondamentale risulta
l'esperienza dell'insegnamento, come pure quella di un ricovero in un
ospedale psichiatrico a seguito di una sfibrante elucubrazione sui temi a
lui tanto a cuore. Il viaggio, dunque, è anche la ricerca di una
personalità perduta, quella di Fedro (nome emblematico usato
dall’autore prima della sua malattia mentale), della quale sono andati
perduti tutti i pensieri, gli
studi e le ricerche intorno al concetto di qualità. Pirsig ora,
attraverso flash-back, ricordi e percorsi logici cerca di recuperare tutto
il materiale intellettivo di Fedro, come un archeologo rinviene i resti di
una struttura appartenente ad un’antica civiltà: attraverso questi
reperti deve ricostruire quello che era. Il
volume riscuote molto successo, essendo reputato buono anche sotto il
profilo letterario, ma soprattutto originale a livello filosofico per
l'interessante indagine sulla "qualità" quale criterio cardine
per l'interpretazione della realtà. L’analisi parte dalla constatazione
che esistono due diversi modi di vedere il mondo: quello classico e quello
romantico. Il primo è il modo razionale, che ha come fine quello di
stabilire un ordine nel caos di eventi che investono l’uomo durante la
sua esperienza di vita, fissando così principi e criteri di decifrazione
del reale (come causa ed effetto, metodo induttivo e deduttivo e così
via); il secondo è il modo romantico, che tende a vedere i fenomeni non
da un punto di vista analitico, ma da quello estetico, osservandoli nel
loro insieme, cogliendo cioè l’armonia tra di essi e contemplando la
bellezza del caos (la tecnica, ossia tutto ciò che rappresenta l’azione
umana finalizzata allo sfruttamento delle risorse del mondo, è
naturalmente un aspetto che esorbita da questo metodo conoscitivo). Il
fatto che l’uomo deve tuttavia sopravvivere attraverso le conquiste
tecniche e tecnologiche, osserva Pirsig, crea un divario sempre più
crescente tra progresso e visione romantica del mondo. Le persone umane si
differenziano proprio in base all’adozione di uno o l’altro dei
sistemi di indagine. Chi segue il metodo classico non potrà mai trovare
un punto d’incontro con chi segue quello romantico, sono due mondi
separati che viaggiano su diverse strutture metafisiche per
l’interpretazione dei fatti. Il
sistema di ricerca classico, è risaputo, si fonda sul metodo scientifico,
che ha come base operativa la sperimentazione. Un fenomeno può
essere spiegato da determinati fattori, per ritrovare i quali si
sperimentano in laboratorio varie ipotesi. Il problema comincia a
presentarsi allorché le ipotesi, man mano che vengono sperimentate,
tendono a moltiplicarsi: da questo si può dedurre che «il numero
delle ipotesi razionali che possono spiegare un fenomeno dato è infinito»
(così afferma Pirsig). A questo punto è impossibile verificare tutte le
ipotesi, che aumentano in numero esponenziale; quindi qualsiasi
esperimento fornisce risultati incompleti e il metodo scientifico, in
sostanza, non stabilisce affatto un sapere dimostrato. Ecco perché tutte
le teorie scientifiche vengono man mano rimpiazzate da altre e più nuove
teorie, prodotte magari dalla verifica di nuove ipotesi inerenti lo stesso
campo di indagine. La verità scientifica non è infatti un dogma eterno,
ma «un’entità quantitativa temporale». Le verità scientifiche
sono dunque caduche, la loro longevità è inversamente proporzionale
all’intensità degli studi: in pratica, più ci si dedica a studiare un
certo fenomeno, più le verità dei risultati durano meno. Nel secolo
scorso tali verità duravano di più, essendo l’attività di studio meno
intensa e quantitativamente inferiore a quella odierna; con molta
probabilità, nel futuro dureranno molto di meno di ora, perché
l’attività di studio sicuramente aumenterà. E tutto ciò perché si
verifica un numero sempre più alto delle ipotesi. Ora,
osserva Pirsig, se l’applicazione del metodo scientifico mira alla verità
immutabile, essa in realtà sta portando l’uomo nella direzione opposta,
ossia verso un infinito numero di verità; verità relative,
a questo punto, che conducono alla confusione del pensiero e dei
valori, cosa che una conoscenza razionale ha il compito di evitare.
Insomma, se l’obiettivo del metodo scientifico è quello di eliminare il
caos, esso alla fine approda nel caos. Questo, è ovvio, non fa avanzare
l’umanità verso un mondo migliore e, altresì, il sistema di pensiero
che ne scaturisce comincia a rivelarsi superficiale, spiritualmente vuoto.
Pirsig osserva che, seguitando di questo passo, si va incontro ad una
crisi sociale sempre più vasta. L’incongruenza
della tecnologia è dovuta al fatto che essa non ha alcuna connessione con
la sfera spirituale né con quella affettiva; per questo i suoi prodotti
sono brutti, tali da farsi odiare. Se l’uomo, impegnato in un primo
tempo soltanto ad assicurarsi il sostentamento (cibo, vestiario, riparo),
non ha realizzato gli estremi di tale incongruenza, ora non può fare a
meno, dal momento che il sostentamento è assicurato, di rilevare la
bruttezza dei risultati tecnologici, una bruttezza che soffoca lo spirito,
oltre ed essere antiestetica. È per questo che manifesta contro le varie
aberrazioni che soddisfano soltanto i bisogni materiali dell’uomo. La
ragione, dice a questo punto Pirsig, deve operare un ampliamento di
prospettive che faccia mutare questo stato di cose, intervenendo sulla
storia umana con una scoperta simile a quella del Nuovo Mondo da parte di
Colombo. Da
qui l’autore comincia a riflettere sul concetto di “qualità”, la
scoperta che potrebbe veramente rivoluzionare l’impasse conoscitiva
attuale ma che risulta, sin dal primo momento, di difficile definizione;
almeno dal punto di vista logico. Che cos’è la qualità? Non è agevole
spiegarla attraverso percorsi logici, eppure è innegabile in quanto
avvertibile. Ogni persona critica ha in sé il concetto di qualità e sa
riconoscerlo senza che nessuno glielo insegni. Questo significa che non è
necessario che si definisca in termini razionali. In effetti, essa non è
oggettiva, perché non misurabile attraverso strumenti scientifici;
neanche è soggettiva, perché connessa ad emozioni irrazionali di scarsa
importanza e, quindi, non reale. Le definizioni della qualità non
concordano perché le persone si basano o sulla totalità delle conoscenze
oggettive o sulle loro emozioni immediate; ma non possono esistere due
qualità, una oggettiva ed una soggettiva. La
verità è che la qualità è qualcosa che va al di là delle concezioni
oggettiva e soggettiva, perché non risiede solo nel mondo materiale o
solo nella mente. La qualità è una terza entità, indipendente dalle
altre due, è il punto in cui soggetto e oggetto si incontrano; essa è un
evento tramite il quale il soggetto prende coscienza dell’oggetto, in
quanto gli oggetti creano nel soggetto la coscienza di sé. La qualità è
l’evento che rende possibile la coscienza sia dell’uno che degli
altri. Questo vuol dire che la qualità è causa del soggetto e
dell’oggetto, non viceversa. Questa è la rivoluzione copernicana: non
sono il soggetto e
l’oggetto a determinare la qualità, ma è questa a determinare gli
altri due, perché è realtà primaria, esistente prima di quella
intellettuale, che è invece secondaria. In questo assunto si vede una
certa analogia con le teorie pragmatistiche di John Dewey, che viene
affrontata più avanti nel corso del presente articolo. Gli
intellettuali, afferma Pirsig, sono le persone più lontane
nell’individuare la qualità, perché troppo guidati dai loro schemi
intellettuali, che sono una sorta di pregiudizio che coprono gli
occhi. «La
gente ha opinioni diverse sulla Qualità, non perché questa sia diversa,
ma perché la gente è diversa in termini di esperienza» scrive
Pirsig. La
qualità è lo stimolo continuo con il quale l’ambiente ci spinge a
creare il mondo in cui viviamo. Ma è impossibile includere ciò (la
qualità) che ha indotto l’uomo a creare il mondo nel mondo stesso da
lui creato. La
realtà è dinamica e la conoscenza classica-dualistica (che poggia sul
binomio soggetto-oggetto) non è sufficiente ad intuirla: occorre avere il
senso della qualità, ossia l’intelligenza do cosa è buono, ossia il
contatto con la qualità. La realtà è «mutevole Qualità», per
starle dietro occorre avere un atteggiamento pratico che non sia bloccato
al pensiero oggettivo e dualistico. L’uomo osserva la realtà per
capirla, quindi schematizza e seleziona degli elementi che fanno parte di
essa fino a creare, tramite tali elementi, una rappresentazione,
un’astrazione (questo è il metodo scientifico classico); ora, mentre
l’uomo compie questa operazione, la realtà è andata avanti, ha
superato la rappresentazione operata dall’uomo, il quale è costretto a
compiere una nuova razionalizzazione della realtà, che migliora in
continuazione, per poterla capire. Non
bisogna temere le situazioni nuove, ammonisce Pirsig, cioè le situazioni
che vanno al di là di ciò che si sa e, in un primo momento, provocano un
blocco; sono esse che fanno emergere la qualità-realtà e che liberano
dal blocco. In effetti, sono le prove che fanno crescere; crescere
significa aumentare di qualità, avanzare in qualità. La qualità agisce,
è la realtà fattiva (ossia dei fatti che si evolvono); la conoscenza
classica è una cristallizzazione, una raffigurazione statica, come una
fotografia datata. Quando si scorge la qualità delle cose, non interessa
ciò che esse sono, ma ciò che esse fanno e perché lo fanno. Pirsig,
secondo un’analisi storico-filosofica, paragona la qualità all’areté
greca, campo di battaglia dei sofisti, osteggiata da Platone. L’areté
è “l’eccellenza”, il grado più alto del valore, impersonato dal
prototipo dell’eroe (vd., ad esempio, Ettore oppure Ulisse), un uomo che
è combattente, astuto, oratore, saggio, generoso, resistente, senza
lamenti, capace di affrontare ogni evenienza: insomma, un uomo abile in
tutto al grado più elevato. Ma l’areté, d’altro canto, «implica
il rispetto per la totalità e l’unicità della vita e, di conseguenza,
il rifiuto della specializzazione». In altre parole, l’areté
si contrappone alla concezione razionalistica, tesa all’infinita
ripartizione dello scibile (dando vita alle specializzazioni), da cui
deriva la conoscenza scientifica occidentale. Con
Platone l’areté diventa un’idea, l’idea del Bene; ma viene
subordinato alla Verità. Importante è però il fatto che Platone attinge
l’idea del Bene dall’areté dei sofisti, i quali però la
considerano non un’idea, ma la realtà stessa, la realtà sempre
mutevole e non conoscibile attraverso schemi rigidi. Platone
è vissuto in un’epoca di tensione dottrinaria, dove vigeva la
contrapposizione tra eraclitei e parmenidei: entrambi proponevano una
Verità Eterna, ma per i primi essa si manifesta nel divenire e per i
secondi è invece una entità ontologica immutabile. Platone ha dovuto
risolvere questa divergenza affermando che la Verità è sia una realtà
in divenire che una realtà immutabile: esse coesistono come “idea
immutabile” e “apparenza mutevole”. In un secondo momento ha posto
l’areté dei sofisti nell’ambito del discorso di idee ed
apparenza, subordinando l’areté solo alla Verità ed alla
dialettica (metodo, quest’ultimo, mediante il quale si giunge alla Verità).
Tutto ciò attraverso un dialogo, genere cui si è molto dedicato,
dal sintomatico titolo Fedro, cui Pirsig si è poi agganciato ed
ispirato per l’esposizione della sua teoria e da cui ha attinto il nome
per il suo protagonista. Fedro era infatti un retore, un sofista, che
Platone mette a confronto con Socrate (protagonista di tutti i suoi
dialoghi) affinché la dottrina del primo venga smontata e ridicolizzata
di fronte alla fondatezza di quella del secondo. Al
di là di questo, Platone ha cercato la sintesi tra Bene e Verità, ma
alla fine ha dato il primato alla Verità. Aristotele, poi, filosofo molto
attento alla sostanza ed alla forma delle cose, colloca l’areté
ad un gradino ancora più basso, dicendo che il Bene è una branca
secondaria della conoscenza che va sotto il nome di etica, perché
ad Aristotele interessa la ragione, la logica, la conoscenza. Da queste
basi nasce il sapere occidentale, da questa concezione aristotelica della
realtà molto legata alla sostanza ed alla forma delle cose. È
per questo che oggi non si sa definire il Bene, perché la nostra cultura
lo ha tralasciato dal tempo di Aristotele, il quale ha impostato il
sapere e la ricerca della Verità sulle forme intellettive rigide e
divisibili all’infinito. Così il Bene (che coincide con la felicità)
non risulta un termine oggettivo, ognuno ha un’idea diversa di esso,
quindi non si può trattare in forma scientifica; non essendo oggettivo,
esiste solo nella mente. Questi
i punti salienti e pregnanti del primo libro di Pirsig, che ha attirato
l’attenzione di molti
lettori, non solo statunitensi, ma di tutto il mondo, ed ha posto in
rilievo una metafisica (appunto la metafisica della qualità) che
rappresenta quanto di più autentico ci sia stato, in campo filosofico,
negli ultimi trent’anni. *
* * Ad
esso è seguito un lungo e rigoroso silenzio, interrotto soltanto
diciassette anni dopo (1991) con
la pubblicazione del secondo volume, dal titolo Lila.
In esso Pirsig riprende il discorso precisamente dove l'aveva lasciato,
prefiggendosi di esporre più sistematicamente la sua metafisica della
qualità, rimasta non sufficientemente definita nella precedente opera
o, meglio, rimasta soltanto accennata e non descritta con sufficiente
chiarezza metodologica. Pretesto narrativo è sempre un viaggio, questa
volta per mezzo di un'imbarcazione con la quale il protagonista (rimasto
lo stesso del precedente libro) scende attraverso il Mississippi e
circumnaviga la costa orientale degli Stati Uniti; se con la motocicletta
aveva attraversato il territorio americano, ora con la barca ne attraversa
mari e fiumi. Essendo
quest'ultimo lavoro quello in cui meglio si afferra il pensiero di Pirsig,
per la più diffusa e approfondita trattazione della teoria metafisica
elaborata, benché con successo inferiore a quello riscosso con il primo,
ne prenderò in considerazione dettagliatamente i contenuti, convinto che
esso racchiude veramente tutta l'originalità del suo filosofare. Ebbene,
prima di tutto occorre giustificare il titolo: Lila.
Sotto questo nome si cela una donna che l'autore-filosofo incontra in un
porto durante la sua traversata in barca. Non è una donna qualunque, ma
quella che la segue da tanto tempo, perché ogni incontro è come un
impegno preso da tempo e da rispettare. Lila è la donna che lo accompagna
durante la traversata, per tutto il tempo preso in considerazione dal
libro, una donna con un passato dubbio e, in fondo, con seri problemi
mentali, che vengono a galla solo alla fine. L'autore se la ritrova
casualmente sulla sua strada, ma non la conosce minimamente; l'accetta
come si accetta la realtà di tutti i giorni, invece rischia di prendersi
cura di lei per tutta la vita. Avendo infatti scoperto che si tratta di
persona con problemi mentali, si sente immediatamente chiamato in causa:
chi più di lui può comprenderla ed aiutarla, dal momento che nel passato
è stato internato in un istituto psichiatrico, soffrendo poi molto per
uscirne e far intendere ai medici che era sano? Ma
la realtà è dinamica, cangiante, non prevedibile e, così, con un colpo
di spugna viene a cancellare i piani del protagonista, facendo scomparire
dalla scena Lila così come era apparsa. I fatti si svolgono in modo che,
mentre sono diretti in Florida, un amico conosciuto durante la regata e
proprietario di un'altra imbarcazione scopre il suo vero ruolo, cioè
quello di essere l'unico obiettivo di Lila; costui, che finora era
sfuggito alla donna, ora ne afferra la sua "qualità", il suo
valore, convinto da un discorso di qualche giorno prima da parte di Fedro,
il protagonista, e si decide a portarla via, per aiutarla, anche se nei
modi tradizionali (pensando, cioè, di portarla in una clinica di cure
mentali). Fin
qui la trama narrativa. Da essa scaturiscono gli stimoli per trattare di
tutt'altro, di filosofia, di teorie metafisiche, ma soprattutto del già
menzionato ed originale metodo d'indagine della realtà di Pirsig. Ed è
di questo che occorre soprattutto parlare. Ebbene,
l'autore sostiene in primis che
la cultura americana sia influenzata dalla civiltà indiana-pellerossa,
caratterizzata da uno spiccato senso pratico e da una profonda aderenza
con la realtà. La personalità dei pellirosse è riservata, misurata,
sincera, fondata su veri e
non affettati sentimenti: gli indiani parlano con il cuore, senza
circonlocuzioni ed artifici, in modo piano e semplice, dicendo veramente
ciò che provano e pensano. Così sono gli americani di fronte, per
esempio, agli europei: l'America è infatti l'incontro tra la cultura
europea e quella indiana. Tale processo è ancora in atto o in via di
realizzazione, lo dimostra l'inquietante tensione cui sono tuttora
sottoposti gli americani dal punto di vista caratteriale. Ciò distingue
anche le zone est e le zone ovest dell'America, con gli americani dell'est
più vicini alla cultura europea e quelli dell'ovest più vicini a quella
indiana. Il concetto di libertà è infatti indiano ed è stato trasmesso
alla cultura europea proprio tramite il colonialismo. Per gli indiani
tutti gli uomini sono liberi ed uguali, ma non altrettanto per gli
europei, i quali sono abituati a fare distinzioni. Il filosofo Rousseau,
al quale viene di solito attribuita la dottrina dell'uguaglianza, trasse
le sue conclusioni dall'incontro tra la cultura europea e quella del Nuovo
Mondo, soprattutto dall'osservazione di un particolare tipo di essere
umano che abitava quel mondo, da lui denominato il "Buon
Selvaggio". Queste
teorie, si rende conto Pirsig, sono originali e sicuramente non accettate
da una scienza come l'antropologia, la quale è stata fin dal principio
impostata come disciplina empirica e razionalistica, basata essenzialmente
sui fattori di "soggetto" e "oggetto", ovvero
"causa" ed "effetto". Parte
da qui tutta una critica al sistema conoscitivo vigente o, almeno,
imperante, fondato sui principi logici e positivistici delle scienze
moderne, denominate "esatte" (così come era già avvenuto nello
Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta). Queste,
prendendo avvio dall'esperienza e dai dati desunti dall'osservazione
diretta, ammettono solo ciò che è quantificabile o può essere
analizzato. Il resto, come il misticismo, l'arte, la moralità, le verità
astratte e i valori in generale, sono reputati irreali. Da qui la
distinzione della conoscenza tra discipline scientifiche e discipline
dello spirito, che hanno modi e approcci conoscitivi completamente
diversi, come se appartenessero a mondi inconciliabili. Dice Pirsig: «Per
interpretare l'esperienza, la nostra cultura ci consegna un paio di
occhiali mentali nelle cui lenti è incorporato il concetto di primato dei
soggetti e degli oggetti. Se uno si mette occhiali un po' diversi, o se,
Dio l'aiuti, rinuncia ad usare gli occhiali, la tendenza naturale di
quelli che continuano a portarli è di considerare le sue affermazioni
quanto meno stravaganti, se non addirittura folli». A
ciò, aggiunge poi, può ovviare la metafisica della qualità,
metafisica cioè basata sui valori affidati alle cose, da cui prendono
senso. Con essa si recupera tutto ciò che è reputato estraneo alla
metafisica soggetto-oggetto (la quale sostiene l'esistenza di una verità
"unica ed esclusiva") e, di conseguenza, si afferma l'esistenza,
anzi la coesistenza, di più verità. Si cerca così di individuare «la
spiegazione intellettuale che possiede la qualità più elevata, con la
consapevolezza, se il passato può insegnare qualcosa, che tale
spiegazione va considerata provvisoria e tenuta per buona soltanto finché
non se ne trovi una migliore». Insomma,
Pirsig è convinto che occorra qualcosa che sopravanza le verità
ufficializzate e accreditate, qualcosa che tiene conto di tutto ciò che
ha valore al di là del sapere raggiunto attraverso un determinato metodo
conoscitivo (quello imperante), qualcosa che contiene i valori di più
verità possibili (che sono poi tra loro sempre concilianti e non così
contrastanti). La metafisica della qualità va quindi al di là
della metafisica soggetto-oggetto, perché basata sui valori che superano
la dimensione soggetto-oggetto e investono le altre verità: in tal modo
può prestarsi alla migliore descrizione del mondo e dei rapporti tra gli
elementi che lo compongono. Infatti la metafisica tradizionale non sa
spiegare molti fenomeni perché non sa uscire dall'impasse
soggetto-oggetto, causa ed effetto, per cui scarta come irreale tutto ciò
che non rientra nel suo sistema conoscitivo. La metafisica della qualità
invece, essendo basata sui valori, trova ogni verità accettabile come
"configurazione stabile di valori". Nel
mondo non ci sono leggi fisse e immutabili, come sostiene la scienza
classica, ma uno schema costante di scelte comportamentali dei suoi
elementi; tali elementi infatti, possono dar vita ad altri eventi non
rientranti in quelli abituali: ce lo dimostra la fisica quantistica, dove
le particelle si comportano senza alcuna osservanza di leggi. La metafisica
della qualità è quella più autenticamente legata all'esperienza,
alla realtà, che non è mai uguale e sfugge sempre alla classificazione o
alle definizioni, perché si apre a tutte le verità e non fissa una
rigida griglia di percezione o acquisizione cognitiva. In
tal modo riesce ad accostare conoscenze tra loro tradizionalmente
distanti, come quelle scientifiche e quelle non ritenute tali, perché
fondata su valori appartenenti ad entrambi. È il valore che determina
l'esistenza delle cose, non viceversa: se l'uomo non dà valore alle cose
è come se esse non esistessero. La scienza, così, è un sistema di
valori stabiliti dalle persone, perché essa è la descrizione della realtà
e non la realtà. Così
anche una scienza come l'antropologia deve essere slegata dalla metafisica
soggetto-oggetto e deve considerare l'esperienza nel suo manifestarsi così
come è, senza cioè discriminare ciò che non rientra nel sistema
conoscitivo tradizionale. La
Qualità percepisce la realtà secondo la "staticità" e la
"dinamicità", ossia noi vediamo il mondo attraverso valori che
si sono stabilizzati e quelli che invece provengono dall'esterno e non si
sono ancora stabilizzati. La realtà è costituita, insomma, da forze
contrastanti, alcune delle quali si sono consolidate e sono rientrate nel
nostro schema di valori mentale, altre invece sono ancora fuori e
rappresentano la novità nei confronti di ciò che si è consolidato.
L'una e l'altra sono indivisibili, coesistono, altrimenti verrebbe meno la
completezza della realtà. È questo il primo corollario della metafisica
della qualità di Pirsig. In
ciò si riscontra un'analogia con la "teoria transazionale"
tirata in ballo dal filosofo pragmatista John Dewey nel volume Esperienza
e Natura, dove la realtà viene percepita attraverso due momenti
distinti, cioè una fase primaria di percezione complessiva e una
secondaria di processo analitico, selettivo e classificatorio.
Nell'esperienza continua della realtà, l'uomo opera una selezione, una
classificazione degli eventi che lo investono (processo paragonabile alla
fase statica della metafisica della qualità di Pirsig) per potersi
orientare ed adeguarsi all'ambiente in cui vive, rapportandosi ed
interagendo con la realtà stessa; nonostante ciò, la realtà lo mette
sempre davanti a situazioni diverse che non rientrano nella
classificazione da lui già operata, di fronte alle quali deve sempre
ritoccare e modificare il suo sistema metafisico (processo simile alla
fase dinamica della metafisica della qualità di Pirsig).
L'esperienza primaria e quella secondaria sono, anche qui, indivisibili,
interagiscono tra loro, e ciò è il modo più naturale dell'uomo per
vivere nella realtà. L'uomo, quindi, si trova inserito in una situazione
(realtà) sempre nuova, nonostante il suo sforzo di definirne gli estremi;
del resto, l'esperienza primaria è quella da cui l'esperienza secondaria
genera l'astrazione, lo schema di codificazione, per poter poi interagire
con una nuova esperienza primaria, una nuova realtà. Da qui il titolo Esperienza
e Natura, ossia l'esperienza di codificazione umana dello svolgersi
della vita in rapporto alle interazioni degli elementi della natura. La metafisica della qualità riconosce vari livelli di configurazione di valori, come quello inorganico, biologico, sociale e morale; ognuno di essi si distingue nettamente dall'altro, ma tutti fanno riferimento al comune denominatore dei valori. Per cui si crea una scala di configurazioni di valori, che vede ogni livello superiore o inferiore ad un altro: ad esempio, il livello biologico ha la supremazia su quello inorganico della materia ma è subordinato a quello sociale, e il livello sociale ha supremazia su quello biologico ma è subordinato a quello morale; in ultimo, il livello morale dinamico cerca di prendere la supremazia su quello morale statico. Il livello superiore dei valori si serve come supporto del livello inferiore per dar vita ad una configurazione di valori nuova che nulla ha che fare con quello inferiore: ad esempio, il computer come macchina funzionante attraverso circuiti elettronici non ha nulla a che fare con i programmi finalizzati a precipue funzioni, pur servendosi di tali circuiti; come pure un testo costruito attraverso tali programmi, poco ha che fare con essi; ancora, la qualità del suddetto testo poco ha che fare con i grafemi e le parole stampate attraverso i programmi telematici che si servono dei circuiti elettronici del computer. Sono, in pratica, livelli di valori tra loro più o meno vicini, ma distinti da una supremazia o inferiorità dell'uno rispetto all'altro. Tra la materia e la moralità, quindi, c'è una lontananza evolutiva di configurazione di valori, ma pur sempre un nesso indiscutibile di rapporti. Ogni
livello, per affermarsi, ha dovuto combattere contro quello inferiore: la
morale, insomma, «non è
semplicemente una serie di regole, bensì una complessa lotta tra schemi
di valore contrastanti», dice Pirsig. «Questa
lotta è il residuo dell'evoluzione. I nuovi schemi entrano in conflitto
con i vecchi». Dalla
lotta tra questi schemi, inoltre, nascono i diversi concetti di bene e di
male: per esempio, il male di un'infezione morbosa, non è un male per lo
schema morale meno evoluto del germe che genera tale infezione morbosa; il
germe infatti combatte per sopravvivere e, per far ciò, deve determinare
l'infezione morbosa, che per esso è un bene. L'era
che stiamo vivendo, afferma Pirsig, è caratterizzata dalla lotta che
l'intelletto ha intrapreso per avere la supremazia sulla configurazione di
valori del livello sociale. In America questo conflitto è stato
rappresentato dalla decadenza della cultura vittoriana e l'affermazione di
quella moderna, che ha prodotto come un "terremoto" di valori.
La cultura vittoriana credeva ad una supremazia della società
sull'intelletto, basava i suoi fondamenti su un codice sociale che
chiamava moralità, per cui tutto era asservito alla forma, al socialmente
conveniente, alla decenza, all'approvazione della società. La nuova
cultura, invece, emersa dalla decadenza di quella vittoriana, rivendica
alla vita intellettuale il diritto di dirigere la società, liberandosi di
tutte le inibizioni costruite dalla cultura vittoriana per nascondere una
verità che non apparisse decente o non rientrasse nei canoni del suo
sistema di valori. Ai
valori vittoriani, ora si sostituivano valori più liberali, che gli
americani prendevano a prestito dagli indiani-pellirosse. Scrive Pirsig:
«I valori morali che stavano
sostituendo quelli vittoriani mutuati dall'Europa erano i valori degli
indiani d'America: indulgenza e tenerezza verso i bambini, libertà,
affinità con la natura». Eccoci,
insomma, al punto di partenza per dire, oltre al fatto che la personalità
americana è costituita da due componenti (l'europea e l'indiana), che la
cultura indiana ha aiutato l'America a venir fuori dalla rigidità formale
della cultura vittoriana. Tuttavia, ammonisce l'autore, i veri valori
indiani sono adeguati ad uno stile di vita indiano, ma non possono essere
inseriti in una complessa società tecnologica; gli stessi indiani, quando
lasciano le riserve, si trovano pessimamente. Ora
nella società americana, dominata dall'intelletto e non più dal sociale,
si è avuto senz'altro un progresso tecnologico e il mondo è in generale
migliorato, ma la qualità di vita che ne è scaturita lascia a
desiderare, è bassa. L'intelletto ha egemonizzato tutto e ha fatto della
"causa" ciò che i vittoriani avevano fatto delle
"forma", delle buone maniere. In pratica, la gente non è più
felice di quella dell'epoca vittoriana; la visione della vita è
oggettiva, scientifica, vale a dire che «l'identità
profonda della persona è il corpo, il corpo materiale, culmine
dell'evoluzione». A
questo punto ogni persona è il suo corpo, distinto da quello di un altro,
per cui tra una persona e un'altra non c'è comunicabilità. L'essere
umano è uguale a qualsiasi altro essere dell'universo, che nasce, vive,
poi muore. «Dal punto di vista scientifico l'uomo non ha fine», dice Pirsig.
L'era dell'intelletto, oltre a portare progressi, ha fatto perdere
all'uomo la sua autenticità. Per
generalizzare, la degradazione della società ha una causa evidente: il
livello intellettuale, affermandosi a discapito di quello sociale (come
nel caso del superamento della cultura vittoriana in America), ha
combattuto sommariamente e a tutto campo contro il livello inferiore,
eliminando non soltanto quanto c'era di cattivo, ma anche quanto c'era di
buono. Scrive Pirsig: «Se oggi ci troviamo a vivere in un paradiso intellettuale e tecnologico
e in un inferno morale e sociale, è perché il livello evolutivo
rappresentato dall'intelletto, nella lotta per affrancarsi dal livello
sociale, ha ignorato il ruolo di quest'ultimo nel mantenere sotto
controllo il livello biologico. Gli intellettuali non si sono resi conto
della marea di qualità biologica che viene in ogni momento arginata
dall'ordine sociale». Nel
processo di affermazione, il livello sociale ha dovuto arginare o tenere
sotto controllo tutte le esigenze del livello biologico, tra cui gli
impulsi più primordiali che ammettono la legge del più forte sul più
debole; orbene, nel combattere il livello sociale, quello intellettuale ha
operato, per affermarsi, un azzeramento indiscriminato, senza cioè
distinguere i valori sociali buoni (che tenevano sotto controllo i valori
biologici) da quelli cattivi (la staticità di valori o la formalità
rigida di comportamenti che non permetteva più libertà all'intelletto).
Questo è stato un errore, perché ha nuovamente ridato vitalità alle
forze biologiche, ha fornito ad esse la possibilità di riemergere ed
affermarsi: ecco perché nella vita di oggi c'è più delinquenza, più
libertà (nel senso di impudenza) di costumi, senza più rispetto per il
prossimo e per l'ordine costituito dal livello sociale. Le configurazioni
di valori intellettuali non sono in grado di arginare le configurazioni
biologiche; lo sono invece quelle sociali. D'altro
canto, i comportamenti sociali stabili combattono la qualità dinamica e
circoscrivono ed espellono gli elementi che tendono ad instaurare una
nuova configurazione di valori. I disadattati, gli emarginati, i
cosiddetti "pazzi", sono persone che rifiutano la configurazione
di valori sociali dominante perché hanno riconosciuto in essa una certa
"convenzionalità", cioè hanno riconosciuto in essa un sistema
di valori accettato dalla maggioranza di persone ma a loro estraneo,
essendo esso originale quanto quello da loro proposto. Il
"pazzo", infatti, chi é? È colui che non accetta il sistema di
valori dominante, perché ne segue uno personale, che non trova inferiore
al primo. Tuttavia, anche quest'ultimo tende a raggiungere una
"staticità", contrapposta a quella del sistema di valori
dominante. Pirsig,
a questo punto, osserva un'analogia tra la follia e il misticismo, per la
loro tendenza a crearsi sistemi di valori del tutto diversi da quello
dominante; soltanto che la follia ha come obiettivo quello si sostituire
il sistema dominante con quello proprio, mentre il misticismo lo ignora
semplicemente, restando sempre aperto all'entità soprannaturale, ossia
alla "Qualità dinamica", che non può essere imbrigliata in
nessuna configurazione di valori statica. Al
di la di tutto, è opportuno abbandonarsi alle spinte della Qualità
dinamica, che sono quelle che allargano gli orizzonti stabiliti dalla
realtà della conoscenza statica. Il malato di mente è, sotto certi
aspetti, il precursore, il pioniere di un nuovo modo di vedere, la persona
che prima di tutti si libera dei "costumi", dei valori statici
di una cultura per cercarne altri che siano più vicini alla verità. La
strada è tuttavia difficile, piena di sofferenza, ma è quella più
autentica per giungere a vedere le cose secondo l'ottica della Qualità. In
definitiva, quello fornitoci da Pirsig è un vero e proprio metodo di
indagine conoscitiva, un'autorevole teoria epistemologica basata su una
metafisica incentrata sui valori, atta a catalogare in modo più armonico
la realtà evolutiva e dinamica, in alternativa alla metafisica
tradizionale fondata sull'assunto di sostanza, ovvero di soggetto-oggetto,
che interpreta il mondo soltanto attraverso l'aspetto
fisico-razionalistico, tralasciando così tutte le categorie che da questo
aspetto esulano, come quello dello spirito, dell'arte, della moralità. Il
mondo, secondo la metafisica proposta da Pirsig, è una realtà dinamica,
un processo evolutivo che, partendo dagli stadi più bassi, attraversa
livelli sempre più alti di progresso tra loro indipendenti e
contrastanti, che tendono comunque verso un grado massimo qualitativo,
verso la Qualità assoluta, il Buono
per eccellenza. Si
tratta di una metafisica che sfocia, come si vede, in un esito mistico,
spirituale, intendendosi per spirituale il sistema conoscitivo superiore
all'impostazione razionalistica di causa-effetto della metafisica
tradizionale; spirituale equivale ad un'apertura verso la dinamicità che
tende verso il "bene assoluto". Scrive
Pirsig: «A rigor di logica
la fondazione di una metafisica è comunque un atto immorale: è il
tentativo di una forma evolutiva inferiore, l'intelletto, di fagocitare
una forma superiore, la conoscenza mistica. [...] Perché la metafisica
vuole divorare il mondo con l'intelletto, pretende di imprigionare la
Qualità dinamica dentro uno schema statico. Naturalmente non ci riesce;
non è possibile. A maggior ragione, allora, perché provarci?». Ogni
tentativo dell'intelletto umano di catalogare la realtà risulta inutile,
obsoleto, datato di fronte alla dinamicità che essa presenta e che le
permette di essere sempre fuori da una esaustiva definizione. L'unico modo
per capire la realtà è rinunciare ad interpretarla, affidandosi ad essa
nella sua corsa verso la Qualità ultima. È come un restare fiduciosi, in
senso religioso, alla bontà di questa entità assoluta, la Qualità, che
è l'unica a poter interpretare la realtà, perché da essa regolata. Il
misticismo cui approda questa nuova metafisica fa parte, del resto, della
cultura americana, mutuato da quello degli indiani d'America, si tratta di
una metafisica, quindi, che ben si inserisce nella tradizione filosofica
di questo continente, non solo nel filone filosofico pragmatistico di
James, di Dewey e di altri ancora, ma addirittura in quello ancestrale
delle antiche tribù pellirosse, la cui cultura era eminentemente basata
sul concetto di "qualità". E
con ciò si è tornati al punto di partenza, per riprendere un argomento
che ha dato il via a tutto il discorso, dove antropologia e filosofia si
incontrano e danno conferma alla validità della teoria enunciata. Si
legge nelle ultime pagine: «Fedro
sperava che la sua Metafisica della Qualità sarebbe invece riuscita a
superare le difese e a far capire come il misticismo degli indiani
d'America non sia estraneo alla cultura americana, ma anzi ne costituisca
la radice profonda, sommersa». Da
ciò, poi, l'autore deduce: «Gli
americani non hanno bisogno di andare in Oriente per imparare che cos'è
la conoscenza mistica. È sempre stata qui, a portata di mano». Al
di là di questo originale collegamento tra la cultura degli indiani
d'America e la teoria metafisica della qualità (come se l'autore volesse
rendere il tributo a chi gli ha dato il "la" per fondare il suo
discorso filosofico), trovo molto interessante l'approdo ad una certa
spiritualità, che è una realtà più concreta di quanto si pensi, una
realtà che ha la facoltà di distogliere lo sguardo ossessivo sulle cose
e le loro leggi per volgerlo nella direzione di una verità più profonda,
anche se poco visibile. Sembra come l'illuminazione che ricevono certi
santi, i quali vedono il mondo non secondo il modo di intendere comune, ma
secondo una prospettiva più
ampia e, comunque, diversa, che spesso li fa apparire degli stralunati o
degli eccentrici. Torna al forum |