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di Piero Proietti

NUOVI FILOSOFI

 

Poche novità offre la filosofia negli ultimi decenni e sempre più raramente emergono figure capaci di attirare l'attenzione per la loro peculiare attività d'indagine; ma, forse, occorre fare un'eccezione per il caso di Robert Pirsig che, attraverso due volumi divulgati sotto l'apparente genere narrativo, propone un'autentica riflessione filosofica.

Nel 1974 il suddetto autore, ex professore di retorica in un college di Bozeman e buon conoscitore del pensiero e della cultura orientali, riesce a pubblicare il primo dei due volumi, dall'originale titolo Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta, testo che, riportando la cronaca di un lungo viaggio in motocicletta attraverso gli Stati Uniti D'America (da Minneapolis a San Francisco, passando per il Montana, l’Oregon e la California), in realtà illustra una personale ricognizione del protagonista intorno al concetto di "qualità", spunto che dà il via alla fondazione di un'intera metafisica sull'indagine conoscitiva.

Contestualmente scandaglia la personalità dello stesso protagonista, sotto cui si cela l’autore, e ripercorre alcuni momenti salienti della sua vita giustificanti la propensione al pensiero speculativo. Fondamentale risulta l'esperienza dell'insegnamento, come pure quella di un ricovero in un ospedale psichiatrico a seguito di una sfibrante elucubrazione sui temi a lui tanto a cuore. Il viaggio, dunque, è anche la ricerca di una personalità perduta, quella di Fedro (nome emblematico usato dall’autore prima della sua malattia mentale), della quale sono andati perduti  tutti i pensieri, gli studi e le ricerche intorno al concetto di qualità. Pirsig ora, attraverso flash-back, ricordi e percorsi logici cerca di recuperare tutto il materiale intellettivo di Fedro, come un archeologo rinviene i resti di una struttura appartenente ad un’antica civiltà: attraverso questi reperti deve ricostruire quello che era.

Il volume riscuote molto successo, essendo reputato buono anche sotto il profilo letterario, ma soprattutto originale a livello filosofico per l'interessante indagine sulla "qualità" quale criterio cardine per l'interpretazione della realtà. L’analisi parte dalla constatazione che esistono due diversi modi di vedere il mondo: quello classico e quello romantico. Il primo è il modo razionale, che ha come fine quello di stabilire un ordine nel caos di eventi che investono l’uomo durante la sua esperienza di vita, fissando così principi e criteri di decifrazione del reale (come causa ed effetto, metodo induttivo e deduttivo e così via); il secondo è il modo romantico, che tende a vedere i fenomeni non da un punto di vista analitico, ma da quello estetico, osservandoli nel loro insieme, cogliendo cioè l’armonia tra di essi e contemplando la bellezza del caos (la tecnica, ossia tutto ciò che rappresenta l’azione umana finalizzata allo sfruttamento delle risorse del mondo, è naturalmente un aspetto che esorbita da questo metodo conoscitivo).

Il fatto che l’uomo deve tuttavia sopravvivere attraverso le conquiste tecniche e tecnologiche, osserva Pirsig, crea un divario sempre più crescente tra progresso e visione romantica del mondo. Le persone umane si differenziano proprio in base all’adozione di uno o l’altro dei sistemi di indagine. Chi segue il metodo classico non potrà mai trovare un punto d’incontro con chi segue quello romantico, sono due mondi separati che viaggiano su diverse strutture metafisiche per l’interpretazione dei fatti.

Il sistema di ricerca classico, è risaputo, si fonda sul metodo scientifico, che ha come base operativa la sperimentazione. Un fenomeno può essere spiegato da determinati fattori, per ritrovare i quali si sperimentano in laboratorio varie ipotesi. Il problema comincia a presentarsi allorché le ipotesi, man mano che vengono sperimentate, tendono a moltiplicarsi: da questo si può dedurre che «il numero delle ipotesi razionali che possono spiegare un fenomeno dato è infinito» (così afferma Pirsig). A questo punto è impossibile verificare tutte le ipotesi, che aumentano in numero esponenziale; quindi qualsiasi esperimento fornisce risultati incompleti e il metodo scientifico, in sostanza, non stabilisce affatto un sapere dimostrato. Ecco perché tutte le teorie scientifiche vengono man mano rimpiazzate da altre e più nuove teorie, prodotte magari dalla verifica di nuove ipotesi inerenti lo stesso campo di indagine. La verità scientifica non è infatti un dogma eterno, ma «un’entità quantitativa temporale». Le verità scientifiche sono dunque caduche, la loro longevità è inversamente proporzionale all’intensità degli studi: in pratica, più ci si dedica a studiare un certo fenomeno, più le verità dei risultati durano meno. Nel secolo scorso tali verità duravano di più, essendo l’attività di studio meno intensa e quantitativamente inferiore a quella odierna; con molta probabilità, nel futuro dureranno molto di meno di ora, perché l’attività di studio sicuramente aumenterà. E tutto ciò perché si verifica un numero sempre più alto delle ipotesi.

Ora, osserva Pirsig, se l’applicazione del metodo scientifico mira alla verità immutabile, essa in realtà sta portando l’uomo nella direzione opposta, ossia verso un infinito numero di verità; verità relative,  a questo punto, che conducono alla confusione del pensiero e dei valori, cosa che una conoscenza razionale ha il compito di evitare. Insomma, se l’obiettivo del metodo scientifico è quello di eliminare il caos, esso alla fine approda nel caos. Questo, è ovvio, non fa avanzare l’umanità verso un mondo migliore e, altresì, il sistema di pensiero che ne scaturisce comincia a rivelarsi superficiale, spiritualmente vuoto. Pirsig osserva che, seguitando di questo passo, si va incontro ad una crisi sociale sempre più vasta.

L’incongruenza della tecnologia è dovuta al fatto che essa non ha alcuna connessione con la sfera spirituale né con quella affettiva; per questo i suoi prodotti sono brutti, tali da farsi odiare. Se l’uomo, impegnato in un primo tempo soltanto ad assicurarsi il sostentamento (cibo, vestiario, riparo), non ha realizzato gli estremi di tale incongruenza, ora non può fare a meno, dal momento che il sostentamento è assicurato, di rilevare la bruttezza dei risultati tecnologici, una bruttezza che soffoca lo spirito, oltre ed essere antiestetica. È per questo che manifesta contro le varie aberrazioni che soddisfano soltanto i bisogni materiali dell’uomo.

La ragione, dice a questo punto Pirsig, deve operare un ampliamento di prospettive che faccia mutare questo stato di cose, intervenendo sulla storia umana con una scoperta simile a quella del Nuovo Mondo da parte di Colombo.

Da qui l’autore comincia a riflettere sul concetto di “qualità”, la scoperta che potrebbe veramente rivoluzionare l’impasse conoscitiva attuale ma che risulta, sin dal primo momento, di difficile definizione; almeno dal punto di vista logico. Che cos’è la qualità? Non è agevole spiegarla attraverso percorsi logici, eppure è innegabile in quanto avvertibile. Ogni persona critica ha in sé il concetto di qualità e sa riconoscerlo senza che nessuno glielo insegni. Questo significa che non è necessario che si definisca in termini razionali. In effetti, essa non è oggettiva, perché non misurabile attraverso strumenti scientifici; neanche è soggettiva, perché connessa ad emozioni irrazionali di scarsa importanza e, quindi, non reale. Le definizioni della qualità non concordano perché le persone si basano o sulla totalità delle conoscenze oggettive o sulle loro emozioni immediate; ma non possono esistere due qualità, una oggettiva ed una soggettiva.

La verità è che la qualità è qualcosa che va al di là delle concezioni oggettiva e soggettiva, perché non risiede solo nel mondo materiale o solo nella mente. La qualità è una terza entità, indipendente dalle altre due, è il punto in cui soggetto e oggetto si incontrano; essa è un evento tramite il quale il soggetto prende coscienza dell’oggetto, in quanto gli oggetti creano nel soggetto la coscienza di sé. La qualità è l’evento che rende possibile la coscienza sia dell’uno che degli altri. Questo vuol dire che la qualità è causa del soggetto e dell’oggetto, non viceversa. Questa è la rivoluzione copernicana: non sono il  soggetto e l’oggetto a determinare la qualità, ma è questa a determinare gli altri due, perché è realtà primaria, esistente prima di quella intellettuale, che è invece secondaria. In questo assunto si vede una certa analogia con le teorie pragmatistiche di John Dewey, che viene affrontata più avanti nel corso del presente articolo.

Gli intellettuali, afferma Pirsig, sono le persone più lontane nell’individuare la qualità, perché troppo guidati dai loro schemi intellettuali, che sono una sorta di pregiudizio che coprono gli occhi.

«La gente ha opinioni diverse sulla Qualità, non perché questa sia diversa, ma perché la gente è diversa in termini di esperienza» scrive Pirsig.

La qualità è lo stimolo continuo con il quale l’ambiente ci spinge a creare il mondo in cui viviamo. Ma è impossibile includere ciò (la qualità) che ha indotto l’uomo a creare il mondo nel mondo stesso da lui creato.

La realtà è dinamica e la conoscenza classica-dualistica (che poggia sul binomio soggetto-oggetto) non è sufficiente ad intuirla: occorre avere il senso della qualità, ossia l’intelligenza do cosa è buono, ossia il contatto con la qualità. La realtà è «mutevole Qualità», per starle dietro occorre avere un atteggiamento pratico che non sia bloccato al pensiero oggettivo e dualistico. L’uomo osserva la realtà per capirla, quindi schematizza e seleziona degli elementi che fanno parte di essa fino a creare, tramite tali elementi, una rappresentazione, un’astrazione (questo è il metodo scientifico classico); ora, mentre l’uomo compie questa operazione, la realtà è andata avanti, ha superato la rappresentazione operata dall’uomo, il quale è costretto a compiere una nuova razionalizzazione della realtà, che migliora in continuazione, per poterla capire.

Non bisogna temere le situazioni nuove, ammonisce Pirsig, cioè le situazioni che vanno al di là di ciò che si sa e, in un primo momento, provocano un blocco; sono esse che fanno emergere la qualità-realtà e che liberano dal blocco. In effetti, sono le prove che fanno crescere; crescere significa aumentare di qualità, avanzare in qualità. La qualità agisce, è la realtà fattiva (ossia dei fatti che si evolvono); la conoscenza classica è una cristallizzazione, una raffigurazione statica, come una fotografia datata. Quando si scorge la qualità delle cose, non interessa ciò che esse sono, ma ciò che esse fanno e perché lo fanno.

Pirsig, secondo un’analisi storico-filosofica, paragona la qualità all’areté greca, campo di battaglia dei sofisti, osteggiata da Platone. L’areté è “l’eccellenza”, il grado più alto del valore, impersonato dal prototipo dell’eroe (vd., ad esempio, Ettore oppure Ulisse), un uomo che è combattente, astuto, oratore, saggio, generoso, resistente, senza lamenti, capace di affrontare ogni evenienza: insomma, un uomo abile in tutto al grado più elevato. Ma l’areté, d’altro canto, «implica il rispetto per la totalità e l’unicità della vita e, di conseguenza, il rifiuto della specializzazione». In altre parole, l’areté si contrappone alla concezione razionalistica, tesa all’infinita ripartizione dello scibile (dando vita alle specializzazioni), da cui deriva la conoscenza scientifica occidentale.

Con Platone l’areté diventa un’idea, l’idea del Bene; ma viene subordinato alla Verità. Importante è però il fatto che Platone attinge l’idea del Bene dall’areté dei sofisti, i quali però la considerano non un’idea, ma la realtà stessa, la realtà sempre mutevole e non conoscibile attraverso schemi rigidi.

Platone è vissuto in un’epoca di tensione dottrinaria, dove vigeva la contrapposizione tra eraclitei e parmenidei: entrambi proponevano una Verità Eterna, ma per i primi essa si manifesta nel divenire e per i secondi è invece una entità ontologica immutabile. Platone ha dovuto risolvere questa divergenza affermando che la Verità è sia una realtà in divenire che una realtà immutabile: esse coesistono come “idea immutabile” e “apparenza mutevole”. In un secondo momento ha posto l’areté dei sofisti nell’ambito del discorso di idee ed apparenza, subordinando l’areté solo alla Verità ed alla dialettica (metodo, quest’ultimo, mediante il quale si giunge alla Verità). Tutto ciò attraverso un dialogo, genere cui si è molto dedicato, dal sintomatico titolo Fedro, cui Pirsig si è poi agganciato ed ispirato per l’esposizione della sua teoria e da cui ha attinto il nome per il suo protagonista. Fedro era infatti un retore, un sofista, che Platone mette a confronto con Socrate (protagonista di tutti i suoi dialoghi) affinché la dottrina del primo venga smontata e ridicolizzata di fronte alla fondatezza di quella del secondo.

Al di là di questo, Platone ha cercato la sintesi tra Bene e Verità, ma alla fine ha dato il primato alla Verità. Aristotele, poi, filosofo molto attento alla sostanza ed alla forma delle cose, colloca l’areté ad un gradino ancora più basso, dicendo che il Bene è una branca secondaria della conoscenza che va sotto il nome di etica, perché ad Aristotele interessa la ragione, la logica, la conoscenza. Da queste basi nasce il sapere occidentale, da questa concezione aristotelica della realtà molto legata alla sostanza ed alla forma delle cose.

È per questo che oggi non si sa definire il Bene, perché la nostra cultura  lo ha tralasciato dal tempo di Aristotele, il quale ha impostato il sapere e la ricerca della Verità sulle forme intellettive rigide e divisibili all’infinito. Così il Bene (che coincide con la felicità) non risulta un termine oggettivo, ognuno ha un’idea diversa di esso, quindi non si può trattare in forma scientifica; non essendo oggettivo, esiste solo nella mente.

Questi i punti salienti e pregnanti del primo libro di Pirsig, che ha attirato l’attenzione  di molti lettori, non solo statunitensi, ma di tutto il mondo, ed ha posto in rilievo una metafisica (appunto la metafisica della qualità) che rappresenta quanto di più autentico ci sia stato, in campo filosofico, negli ultimi trent’anni.

 

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Ad esso è seguito un lungo e rigoroso silenzio, interrotto soltanto diciassette anni dopo (1991)  con la pubblicazione del secondo volume, dal titolo Lila. In esso Pirsig riprende il discorso precisamente dove l'aveva lasciato, prefiggendosi di esporre più sistematicamente la sua metafisica della qualità, rimasta non sufficientemente definita nella precedente opera o, meglio, rimasta soltanto accennata e non descritta con sufficiente chiarezza metodologica. Pretesto narrativo è sempre un viaggio, questa volta per mezzo di un'imbarcazione con la quale il protagonista (rimasto lo stesso del precedente libro) scende attraverso il Mississippi e circumnaviga la costa orientale degli Stati Uniti; se con la motocicletta aveva attraversato il territorio americano, ora con la barca ne attraversa mari e fiumi.

Essendo quest'ultimo lavoro quello in cui meglio si afferra il pensiero di Pirsig, per la più diffusa e approfondita trattazione della teoria metafisica elaborata, benché con successo inferiore a quello riscosso con il primo, ne prenderò in considerazione dettagliatamente i contenuti, convinto che esso racchiude veramente tutta l'originalità del suo filosofare.

Ebbene, prima di tutto occorre giustificare il titolo: Lila. Sotto questo nome si cela una donna che l'autore-filosofo incontra in un porto durante la sua traversata in barca. Non è una donna qualunque, ma quella che la segue da tanto tempo, perché ogni incontro è come un impegno preso da tempo e da rispettare. Lila è la donna che lo accompagna durante la traversata, per tutto il tempo preso in considerazione dal libro, una donna con un passato dubbio e, in fondo, con seri problemi mentali, che vengono a galla solo alla fine. L'autore se la ritrova casualmente sulla sua strada, ma non la conosce minimamente; l'accetta come si accetta la realtà di tutti i giorni, invece rischia di prendersi cura di lei per tutta la vita. Avendo infatti scoperto che si tratta di persona con problemi mentali, si sente immediatamente chiamato in causa: chi più di lui può comprenderla ed aiutarla, dal momento che nel passato è stato internato in un istituto psichiatrico, soffrendo poi molto per uscirne e far intendere ai medici che era sano?

Ma la realtà è dinamica, cangiante, non prevedibile e, così, con un colpo di spugna viene a cancellare i piani del protagonista, facendo scomparire dalla scena Lila così come era apparsa. I fatti si svolgono in modo che, mentre sono diretti in Florida, un amico conosciuto durante la regata e proprietario di un'altra imbarcazione scopre il suo vero ruolo, cioè quello di essere l'unico obiettivo di Lila; costui, che finora era sfuggito alla donna, ora ne afferra la sua "qualità", il suo valore, convinto da un discorso di qualche giorno prima da parte di Fedro, il protagonista, e si decide a portarla via, per aiutarla, anche se nei modi tradizionali (pensando, cioè, di portarla in una clinica di cure mentali).

Fin qui la trama narrativa. Da essa scaturiscono gli stimoli per trattare di tutt'altro, di filosofia, di teorie metafisiche, ma soprattutto del già menzionato ed originale metodo d'indagine della realtà di Pirsig. Ed è di questo che occorre soprattutto parlare.

Ebbene, l'autore sostiene in primis che la cultura americana sia influenzata dalla civiltà indiana-pellerossa, caratterizzata da uno spiccato senso pratico e da una profonda aderenza con la realtà. La personalità dei pellirosse è riservata, misurata, sincera, fondata su veri  e non affettati sentimenti: gli indiani parlano con il cuore, senza circonlocuzioni ed artifici, in modo piano e semplice, dicendo veramente ciò che provano e pensano. Così sono gli americani di fronte, per esempio, agli europei: l'America è infatti l'incontro tra la cultura europea e quella indiana. Tale processo è ancora in atto o in via di realizzazione, lo dimostra l'inquietante tensione cui sono tuttora sottoposti gli americani dal punto di vista caratteriale. Ciò distingue anche le zone est e le zone ovest dell'America, con gli americani dell'est più vicini alla cultura europea e quelli dell'ovest più vicini a quella indiana. Il concetto di libertà è infatti indiano ed è stato trasmesso alla cultura europea proprio tramite il colonialismo. Per gli indiani tutti gli uomini sono liberi ed uguali, ma non altrettanto per gli europei, i quali sono abituati a fare distinzioni. Il filosofo Rousseau, al quale viene di solito attribuita la dottrina dell'uguaglianza, trasse le sue conclusioni dall'incontro tra la cultura europea e quella del Nuovo Mondo, soprattutto dall'osservazione di un particolare tipo di essere umano che abitava quel mondo, da lui denominato il "Buon Selvaggio".

Queste teorie, si rende conto Pirsig, sono originali e sicuramente non accettate da una scienza come l'antropologia, la quale è stata fin dal principio impostata come disciplina empirica e razionalistica, basata essenzialmente sui fattori di "soggetto" e "oggetto", ovvero "causa" ed "effetto".

Parte da qui tutta una critica al sistema conoscitivo vigente o, almeno, imperante, fondato sui principi logici e positivistici delle scienze moderne, denominate "esatte" (così come era già avvenuto nello Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta). Queste, prendendo avvio dall'esperienza e dai dati desunti dall'osservazione diretta, ammettono solo ciò che è quantificabile o può essere analizzato. Il resto, come il misticismo, l'arte, la moralità, le verità astratte e i valori in generale, sono reputati irreali. Da qui la distinzione della conoscenza tra discipline scientifiche e discipline dello spirito, che hanno modi e approcci conoscitivi completamente diversi, come se appartenessero a mondi inconciliabili. Dice Pirsig: «Per interpretare l'esperienza, la nostra cultura ci consegna un paio di occhiali mentali nelle cui lenti è incorporato il concetto di primato dei soggetti e degli oggetti. Se uno si mette occhiali un po' diversi, o se, Dio l'aiuti, rinuncia ad usare gli occhiali, la tendenza naturale di quelli che continuano a portarli è di considerare le sue affermazioni quanto meno stravaganti, se non addirittura folli».

A ciò, aggiunge poi, può ovviare la metafisica della qualità, metafisica cioè basata sui valori affidati alle cose, da cui prendono senso. Con essa si recupera tutto ciò che è reputato estraneo alla metafisica soggetto-oggetto (la quale sostiene l'esistenza di una verità "unica ed esclusiva") e, di conseguenza, si afferma l'esistenza, anzi la coesistenza, di più verità. Si cerca così di individuare «la spiegazione intellettuale che possiede la qualità più elevata, con la consapevolezza, se il passato può insegnare qualcosa, che tale spiegazione va considerata provvisoria e tenuta per buona soltanto finché non se ne trovi una migliore».

Insomma, Pirsig è convinto che occorra qualcosa che sopravanza le verità ufficializzate e accreditate, qualcosa che tiene conto di tutto ciò che ha valore al di là del sapere raggiunto attraverso un determinato metodo conoscitivo (quello imperante), qualcosa che contiene i valori di più verità possibili (che sono poi tra loro sempre concilianti e non così contrastanti). La metafisica della qualità va quindi al di là della metafisica soggetto-oggetto, perché basata sui valori che superano la dimensione soggetto-oggetto e investono le altre verità: in tal modo può prestarsi alla migliore descrizione del mondo e dei rapporti tra gli elementi che lo compongono. Infatti la metafisica tradizionale non sa spiegare molti fenomeni perché non sa uscire dall'impasse soggetto-oggetto, causa ed effetto, per cui scarta come irreale tutto ciò che non rientra nel suo sistema conoscitivo. La metafisica della qualità invece, essendo basata sui valori, trova ogni verità accettabile come "configurazione stabile di valori".

Nel mondo non ci sono leggi fisse e immutabili, come sostiene la scienza classica, ma uno schema costante di scelte comportamentali dei suoi elementi; tali elementi infatti, possono dar vita ad altri eventi non rientranti in quelli abituali: ce lo dimostra la fisica quantistica, dove le particelle si comportano senza alcuna osservanza di leggi. La metafisica della qualità è quella più autenticamente legata all'esperienza, alla realtà, che non è mai uguale e sfugge sempre alla classificazione o alle definizioni, perché si apre a tutte le verità e non fissa una rigida griglia di percezione o acquisizione cognitiva.

In tal modo riesce ad accostare conoscenze tra loro tradizionalmente distanti, come quelle scientifiche e quelle non ritenute tali, perché fondata su valori appartenenti ad entrambi. È il valore che determina l'esistenza delle cose, non viceversa: se l'uomo non dà valore alle cose è come se esse non esistessero. La scienza, così, è un sistema di valori stabiliti dalle persone, perché essa è la descrizione della realtà e non la realtà.

Così anche una scienza come l'antropologia deve essere slegata dalla metafisica soggetto-oggetto e deve considerare l'esperienza nel suo manifestarsi così come è, senza cioè discriminare ciò che non rientra nel sistema conoscitivo tradizionale.

La Qualità percepisce la realtà secondo la "staticità" e la "dinamicità", ossia noi vediamo il mondo attraverso valori che si sono stabilizzati e quelli che invece provengono dall'esterno e non si sono ancora stabilizzati. La realtà è costituita, insomma, da forze contrastanti, alcune delle quali si sono consolidate e sono rientrate nel nostro schema di valori mentale, altre invece sono ancora fuori e rappresentano la novità nei confronti di ciò che si è consolidato. L'una e l'altra sono indivisibili, coesistono, altrimenti verrebbe meno la completezza della realtà. È questo il primo corollario della metafisica della qualità di Pirsig.

In ciò si riscontra un'analogia con la "teoria transazionale" tirata in ballo dal filosofo pragmatista John Dewey nel volume Esperienza e Natura, dove la realtà viene percepita attraverso due momenti distinti, cioè una fase primaria di percezione complessiva e una secondaria di processo analitico, selettivo e classificatorio. Nell'esperienza continua della realtà, l'uomo opera una selezione, una classificazione degli eventi che lo investono (processo paragonabile alla fase statica della metafisica della qualità di Pirsig) per potersi orientare ed adeguarsi all'ambiente in cui vive, rapportandosi ed interagendo con la realtà stessa; nonostante ciò, la realtà lo mette sempre davanti a situazioni diverse che non rientrano nella classificazione da lui già operata, di fronte alle quali deve sempre ritoccare e modificare il suo sistema metafisico (processo simile alla fase dinamica della metafisica della qualità di Pirsig). L'esperienza primaria e quella secondaria sono, anche qui, indivisibili, interagiscono tra loro, e ciò è il modo più naturale dell'uomo per vivere nella realtà. L'uomo, quindi, si trova inserito in una situazione (realtà) sempre nuova, nonostante il suo sforzo di definirne gli estremi; del resto, l'esperienza primaria è quella da cui l'esperienza secondaria genera l'astrazione, lo schema di codificazione, per poter poi interagire con una nuova esperienza primaria, una nuova realtà. Da qui il titolo Esperienza e Natura, ossia l'esperienza di codificazione umana dello svolgersi della vita in rapporto alle interazioni degli elementi della natura.

La metafisica della qualità riconosce vari livelli di configurazione di valori, come quello inorganico, biologico, sociale e morale; ognuno di essi si distingue nettamente dall'altro, ma tutti fanno riferimento al comune denominatore dei valori. Per cui si crea una scala di configurazioni di valori, che vede ogni livello superiore o inferiore ad un altro: ad esempio, il livello biologico ha la supremazia su quello inorganico della materia ma è subordinato a quello sociale, e il livello sociale ha supremazia su quello biologico ma è subordinato a quello morale; in ultimo, il livello morale dinamico cerca di prendere la supremazia su quello morale statico. Il livello superiore dei valori si serve come supporto del livello inferiore per dar vita ad una configurazione di valori nuova che nulla ha che fare con quello inferiore: ad esempio, il computer come macchina funzionante attraverso circuiti elettronici non ha nulla a che fare con i programmi finalizzati a precipue funzioni, pur servendosi di tali circuiti; come pure un testo costruito attraverso tali programmi, poco ha che fare con essi; ancora, la qualità del suddetto testo poco ha che fare con i grafemi e le parole stampate attraverso i programmi telematici che si servono dei circuiti elettronici del computer. Sono, in pratica, livelli di valori tra loro più o meno vicini, ma distinti da una supremazia o inferiorità dell'uno rispetto all'altro. Tra la materia e la moralità, quindi, c'è una lontananza evolutiva di configurazione di valori, ma pur sempre un nesso indiscutibile di rapporti.

Ogni livello, per affermarsi, ha dovuto combattere contro quello inferiore: la morale, insomma, «non è semplicemente una serie di regole, bensì una complessa lotta tra schemi di valore contrastanti», dice Pirsig. «Questa lotta è il residuo dell'evoluzione. I nuovi schemi entrano in conflitto con i vecchi».

Dalla lotta tra questi schemi, inoltre, nascono i diversi concetti di bene e di male: per esempio, il male di un'infezione morbosa, non è un male per lo schema morale meno evoluto del germe che genera tale infezione morbosa; il germe infatti combatte per sopravvivere e, per far ciò, deve determinare l'infezione morbosa, che per esso è un bene.

L'era che stiamo vivendo, afferma Pirsig, è caratterizzata dalla lotta che l'intelletto ha intrapreso per avere la supremazia sulla configurazione di valori del livello sociale. In America questo conflitto è stato rappresentato dalla decadenza della cultura vittoriana e l'affermazione di quella moderna, che ha prodotto come un "terremoto" di valori. La cultura vittoriana credeva ad una supremazia della società sull'intelletto, basava i suoi fondamenti su un codice sociale che chiamava moralità, per cui tutto era asservito alla forma, al socialmente conveniente, alla decenza, all'approvazione della società. La nuova cultura, invece, emersa dalla decadenza di quella vittoriana, rivendica alla vita intellettuale il diritto di dirigere la società, liberandosi di tutte le inibizioni costruite dalla cultura vittoriana per nascondere una verità che non apparisse decente o non rientrasse nei canoni del suo sistema di valori.

Ai valori vittoriani, ora si sostituivano valori più liberali, che gli americani prendevano a prestito dagli indiani-pellirosse. Scrive Pirsig: «I valori morali che stavano sostituendo quelli vittoriani mutuati dall'Europa erano i valori degli indiani d'America: indulgenza e tenerezza verso i bambini, libertà, affinità con la natura».

Eccoci, insomma, al punto di partenza per dire, oltre al fatto che la personalità americana è costituita da due componenti (l'europea e l'indiana), che la cultura indiana ha aiutato l'America a venir fuori dalla rigidità formale della cultura vittoriana. Tuttavia, ammonisce l'autore, i veri valori indiani sono adeguati ad uno stile di vita indiano, ma non possono essere inseriti in una complessa società tecnologica; gli stessi indiani, quando lasciano le riserve, si trovano pessimamente.

Ora nella società americana, dominata dall'intelletto e non più dal sociale, si è avuto senz'altro un progresso tecnologico e il mondo è in generale migliorato, ma la qualità di vita che ne è scaturita lascia a desiderare, è bassa. L'intelletto ha egemonizzato tutto e ha fatto della "causa" ciò che i vittoriani avevano fatto delle "forma", delle buone maniere. In pratica, la gente non è più felice di quella dell'epoca vittoriana; la visione della vita è oggettiva, scientifica, vale a dire che «l'identità profonda della persona è il corpo, il corpo materiale, culmine dell'evoluzione».

A questo punto ogni persona è il suo corpo, distinto da quello di un altro, per cui tra una persona e un'altra non c'è comunicabilità. L'essere umano è uguale a qualsiasi altro essere dell'universo, che nasce, vive, poi muore. «Dal punto di vista scientifico l'uomo non ha fine», dice Pirsig. L'era dell'intelletto, oltre a portare progressi, ha fatto perdere all'uomo la sua autenticità.

Per generalizzare, la degradazione della società ha una causa evidente: il livello intellettuale, affermandosi a discapito di quello sociale (come nel caso del superamento della cultura vittoriana in America), ha combattuto sommariamente e a tutto campo contro il livello inferiore, eliminando non soltanto quanto c'era di cattivo, ma anche quanto c'era di buono. Scrive Pirsig: «Se oggi ci troviamo a vivere in un paradiso intellettuale e tecnologico e in un inferno morale e sociale, è perché il livello evolutivo rappresentato dall'intelletto, nella lotta per affrancarsi dal livello sociale, ha ignorato il ruolo di quest'ultimo nel mantenere sotto controllo il livello biologico. Gli intellettuali non si sono resi conto della marea di qualità biologica che viene in ogni momento arginata dall'ordine sociale».

Nel processo di affermazione, il livello sociale ha dovuto arginare o tenere sotto controllo tutte le esigenze del livello biologico, tra cui gli impulsi più primordiali che ammettono la legge del più forte sul più debole; orbene, nel combattere il livello sociale, quello intellettuale ha operato, per affermarsi, un azzeramento indiscriminato, senza cioè distinguere i valori sociali buoni (che tenevano sotto controllo i valori biologici) da quelli cattivi (la staticità di valori o la formalità rigida di comportamenti che non permetteva più libertà all'intelletto). Questo è stato un errore, perché ha nuovamente ridato vitalità alle forze biologiche, ha fornito ad esse la possibilità di riemergere ed affermarsi: ecco perché nella vita di oggi c'è più delinquenza, più libertà (nel senso di impudenza) di costumi, senza più rispetto per il prossimo e per l'ordine costituito dal livello sociale. Le configurazioni di valori intellettuali non sono in grado di arginare le configurazioni biologiche; lo sono invece quelle sociali.

D'altro canto, i comportamenti sociali stabili combattono la qualità dinamica e circoscrivono ed espellono gli elementi che tendono ad instaurare una nuova configurazione di valori. I disadattati, gli emarginati, i cosiddetti "pazzi", sono persone che rifiutano la configurazione di valori sociali dominante perché hanno riconosciuto in essa una certa "convenzionalità", cioè hanno riconosciuto in essa un sistema di valori accettato dalla maggioranza di persone ma a loro estraneo, essendo esso originale quanto quello da loro proposto. Il "pazzo", infatti, chi é? È colui che non accetta il sistema di valori dominante, perché ne segue uno personale, che non trova inferiore al primo. Tuttavia, anche quest'ultimo tende a raggiungere una "staticità", contrapposta a quella del sistema di valori dominante.

Pirsig, a questo punto, osserva un'analogia tra la follia e il misticismo, per la loro tendenza a crearsi sistemi di valori del tutto diversi da quello dominante; soltanto che la follia ha come obiettivo quello si sostituire il sistema dominante con quello proprio, mentre il misticismo lo ignora semplicemente, restando sempre aperto all'entità soprannaturale, ossia alla "Qualità dinamica", che non può essere imbrigliata in nessuna configurazione di valori statica.

Al di la di tutto, è opportuno abbandonarsi alle spinte della Qualità dinamica, che sono quelle che allargano gli orizzonti stabiliti dalla realtà della conoscenza statica. Il malato di mente è, sotto certi aspetti, il precursore, il pioniere di un nuovo modo di vedere, la persona che prima di tutti si libera dei "costumi", dei valori statici di una cultura per cercarne altri che siano più vicini alla verità. La strada è tuttavia difficile, piena di sofferenza, ma è quella più autentica per giungere a vedere le cose secondo l'ottica della Qualità.

In definitiva, quello fornitoci da Pirsig è un vero e proprio metodo di indagine conoscitiva, un'autorevole teoria epistemologica basata su una metafisica incentrata sui valori, atta a catalogare in modo più armonico la realtà evolutiva e dinamica, in alternativa alla metafisica tradizionale fondata sull'assunto di sostanza, ovvero di soggetto-oggetto, che interpreta il mondo soltanto attraverso l'aspetto fisico-razionalistico, tralasciando così tutte le categorie che da questo aspetto esulano, come quello dello spirito, dell'arte, della moralità. Il mondo, secondo la metafisica proposta da Pirsig, è una realtà dinamica, un processo evolutivo che, partendo dagli stadi più bassi, attraversa livelli sempre più alti di progresso tra loro indipendenti e contrastanti, che tendono comunque verso un grado massimo qualitativo, verso la Qualità assoluta, il Buono per eccellenza.

Si tratta di una metafisica che sfocia, come si vede, in un esito mistico, spirituale, intendendosi per spirituale il sistema conoscitivo superiore all'impostazione razionalistica di causa-effetto della metafisica tradizionale; spirituale equivale ad un'apertura verso la dinamicità che tende verso il "bene assoluto".

Scrive Pirsig: «A rigor di logica la fondazione di una metafisica è comunque un atto immorale: è il tentativo di una forma evolutiva inferiore, l'intelletto, di fagocitare una forma superiore, la conoscenza mistica. [...] Perché la metafisica vuole divorare il mondo con l'intelletto, pretende di imprigionare la Qualità dinamica dentro uno schema statico. Naturalmente non ci riesce; non è possibile. A maggior ragione, allora, perché provarci?».

Ogni tentativo dell'intelletto umano di catalogare la realtà risulta inutile, obsoleto, datato di fronte alla dinamicità che essa presenta e che le permette di essere sempre fuori da una esaustiva definizione. L'unico modo per capire la realtà è rinunciare ad interpretarla, affidandosi ad essa nella sua corsa verso la Qualità ultima. È come un restare fiduciosi, in senso religioso, alla bontà di questa entità assoluta, la Qualità, che è l'unica a poter interpretare la realtà, perché da essa regolata.

Il misticismo cui approda questa nuova metafisica fa parte, del resto, della cultura americana, mutuato da quello degli indiani d'America, si tratta di una metafisica, quindi, che ben si inserisce nella tradizione filosofica di questo continente, non solo nel filone filosofico pragmatistico di James, di Dewey e di altri ancora, ma addirittura in quello ancestrale delle antiche tribù pellirosse, la cui cultura era eminentemente basata sul concetto di "qualità".

E con ciò si è tornati al punto di partenza, per riprendere un argomento che ha dato il via a tutto il discorso, dove antropologia e filosofia si incontrano e danno conferma alla validità della teoria enunciata.

Si legge nelle ultime pagine: «Fedro sperava che la sua Metafisica della Qualità sarebbe invece riuscita a superare le difese e a far capire come il misticismo degli indiani d'America non sia estraneo alla cultura americana, ma anzi ne costituisca la radice profonda, sommersa».

Da ciò, poi, l'autore deduce: «Gli americani non hanno bisogno di andare in Oriente per imparare che cos'è la conoscenza mistica. È sempre stata qui, a portata di mano».

Al di là di questo originale collegamento tra la cultura degli indiani d'America e la teoria metafisica della qualità (come se l'autore volesse rendere il tributo a chi gli ha dato il "la" per fondare il suo discorso filosofico), trovo molto interessante l'approdo ad una certa spiritualità, che è una realtà più concreta di quanto si pensi, una realtà che ha la facoltà di distogliere lo sguardo ossessivo sulle cose e le loro leggi per volgerlo nella direzione di una verità più profonda, anche se poco visibile. Sembra come l'illuminazione che ricevono certi santi, i quali vedono il mondo non secondo il modo di intendere comune, ma secondo una prospettiva  più ampia e, comunque, diversa, che spesso li fa apparire degli stralunati o degli eccentrici.

 

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