MOQ / Italia Online: Forum di Robert Pirsig titolo
originale: Cruising blues and their cure Un caso tipico. Dopo quattro anni di duro lavoro
avevano varato il loro trimarano d’altura a Minneapolis, all’inizio
del tratto navigabile del Mississippi. Ci vollero sei mesi e mezzo per
scendere il fiume ed attraversare il golfo, fino alla Florida, dove si
fermarono a sistemare gli ultimi dettagli. E poi da lì salparono, diretti
alla volta delle Bahamas, delle Piccole Antille e dell’America del sud. Solo che non funzionò. Dopo sei settimane erano già
alla frutta. Riportarono la barca in Florida e la misero in vendita. Scrissero al giornale della loro città: «Volevamo fare cose diverse. Ognuno di noi aveva un
sogno incompiuto, un posto da visitare, una cosa da fare. E
l’imbarazzante risultato è che la grande fuga è durata, in tutto, otto
mesi. Detta così, non sembra proprio che siamo stati ripagati dei nostri
quattro anni di lavoro». «E’ che quasi tutti eravamo arrivati al limite
della sopportazione; eravamo in overdose da vacanza. Forse non siamo
quegli spiriti liberi che credevamo di essere; ogni isola che visitavamo
ci sembrava peggio della precedente». «E
pensavamo al ritorno a casa». Cambiate il punto di partenza: Sacramento, o
Cincinnati o uno qualunque dei mille posti in cui, nell’animo di
sognatori bloccati dalla terraferma e dal lavoro, abbonda la speranza di
navigare per il mondo; aggiungete le migliaia di coppie che per anni si
sono astenute dallo spendere in acqua i loro weekend,
per potersi permettere, un giorno, di ritirarsi a fare vita di
mare... e finiscono per vendere la barca dopo sei mesi; cambiate il tipo e
la stazza della barca, l’età o il passato dei protagonisti, e avrete la
solita storia, già sentita un’infinità di volte fra chi va a vela:
sogni romantici di tutta una vita, distrutti da quel male psicologico che
più di ogni altro ha chiuso la carriera di tantissimi velisti: la
depressione da crociera. A St. Thomas, nelle Isole Vergini, una coppia di
coniugi aveva appena deciso di vendere la barca e tornarsene a casa. «Non
so cos’è che stavamo cercando», disse lei, «ma qualunque cosa fosse,
non l’abbiamo trovata in barca. Speravamo di realizzare il sogno di una
vita, ma adesso, se ripenso a quei giorni… beh, certo, abbiamo passato
momenti stupendi, ma per lo più si è trattato di duro lavoro e problemi.
Molti più che se ce ne fossimo restati a casa ». In un altro caso fu il marito a dire: «Ci siamo
ritrovati a darci sui nervi l’un l’altro, tanto eravamo costretti a
stare insieme ogni giorno. Non ci eravamo mai resi conto che per godere
della compagnia di qualcuno c’è bisogno anche di momenti di
separazione. Per anni siamo usciti in mare nei weekend, o per brevi
vacanze… ma vivere insieme a bordo non è la stessa cosa». Frasi come queste che raccontano la depressione da
crociera variano a seconda delle persone, ma nella maggior parte dei casi
ci raccontano lunghi periodi di silenzio in persone che prima erano
generalmente ciarliere; seguiti da un sentimento di tristezza travolgente,
che, all’inizio, non sembra avere cause specifiche; poi, al contrario,
sembra avere molte cause diverse: «’sta barca è sempre guasta»; o…
«qui va tutto a rotoli». Considerando il gran numero di cose che si possono
guastare, è piuttosto normale che si rompa qualcosa, ma in quei momenti
non c’è il tempo o l’attrezzatura per effettuare grandi riparazioni,
e la manutenzione della barca richiede un’enorme quantità di lavoro non
previsto. Così, ogni minima
rottura - una pompa che non funziona, un’elica allentata, un verricello
danneggiato - sembra una catastrofe, che, nelle lunghe ore al timone in
cui il problema non è ancora stato risolto, nella mente s’ingigantisce
ancora di più. I soldi fanno presto ad andarsene. La maggior parte
dei supermarket è troppo lontana dalla barca per poterci andare a piedi.
Gli empori dei porti sembra che si divertano a caricare sui prezzi. Quando
si tratta di soldi, quello è sempre un problema; ma mentre prima era una
specie di sfida, adesso è diventato fonte di disperazione. Un marinaio
serio riesce a trovare i soldi, in un modo o nell’altro; di solito
accettando, di buon grado, qualche lavoretto nella zona del porto: è la
sua barca a dargli un motivo per lavorare. Ma quando si ha l’impressione
che sia la barca stessa a non essere “di buon grado” non c’è più
nulla da fare. La gente è più scontrosa, rispetto a casa. Là
erano tutti gioviali, ma adesso il mal di crociera ha disegnato cipiglio e
preoccupazione sul viso del navigante, e questo aiuta la gente a tenersi
ancor più alla larga. Tutto questo è una fuga dalla realtà. Non ci si
accorge mai di quanto possa essere buono il lavoro in ufficio, dalle nove
alle cinque orario continuato. Piccole cose: quelli che ti salutano il
mattino, il capo che ti ferma per chiederti un’opinione di cui ha
veramente bisogno. Vedere i vecchi amici, i vicini dall’aria così
familiare, le strade nelle quali hai vissuto per una vita.
Perché mai fuggire da tutto ciò? Forse navigare insegna proprio
ad apprezzare quel mondo reale che di solito percepiamo opprimente. Quest’ultimo sintomo, il desiderio di “ritornare
alla realtà”, l’ho trovato in quasi tutti i casi di mal di crociera,
e forse è la chiave di tutto quel tormento. Se uno riesce a sopportare la
cosa per un po’, capisce chiaramente che quella è la fonte profonda di
tutti i guai. Per prima cosa, bisognerebbe chiedere a quelli che
si sentono depressi da dove hanno preso l’idea che la crociera potesse
essere una fuga dalla realtà. Chi glielo ha detto, e cosa intendeva?
Scienziati e filosofi spendono il lavoro di una vita a scervellarsi sulla
natura della realtà, e questi “depressi” usano il termine così, come
se tutti lo conoscessero, e come se ci fosse accordo su ciò che
significa. Mi sembra di capire che la realtà sia, per loro, il
modo nel quale hanno vissuto la vita di ogni giorno prima di prendere il
mare; a differenza della navigazione a vela, in quel modo vive la maggior
parte dei membri della nostra civiltà. Di solito si tratta di un impiego
ben pagato, in una qualche struttura economica, piuttosto allineata con le
norme ed i costumi della società. In poche parole, quel ritorno è un
ritorno al gregge. Non è difficile capire l’assurdità. Lo schema
casa-macchina-lavoro con la sua routine da ufficio è in realtà comune ad
una piccola percentuale della popolazione del pianeta, e a questa
percentuale è divenuto comune sì e no da un secolo. Se questa è la
realtà, i milioni di anni che l’hanno preceduta cos’erano: irreali? Una definizione alternativa, e migliore, di realtà,
la possiamo trovare dando dei nomi ad alcune delle cose che la
compongono… aria… sole… vento… acqua… le onde… le figure delle
nuvole prima di una tempesta. Questi elementi, a differenza della routine
impiegatizia del ventesimo secolo, sono sempre esistiti, prima che
apparisse la vita sul pianeta, e ci saranno anche dopo l’estinzione
degli uffici e della loro routine. Sono conosciuti da tutti, non soltanto
da un piccolo segmento di una società avanzata. Se li consideriamo sulla
base della pura logica, sono ben più reali di quegli stili di vita così
transitori della civiltà moderna cui i nostri depressi vogliono tornare. Se le cose stanno così, ne consegue che coloro che
vedono la vela come una fuga dalla realtà hanno inteso il significato
della vela e della realtà esattamente al contrario. Andar per mare non è
una fuga, ma un ritorno alla realtà; a confrontarsi con una cosa da cui
la civiltà moderna stessa è invece in fuga. Per secoli l’uomo ha sopportato la realtà di un
pianeta che era troppo buio, o troppo caldo, o troppo freddo; e per
fuggire da esso ha inventato complessi sistemi per l’illuminazione, il
riscaldamento, l’aria condizionata. La vela rifiuta il tutto e ci
riporta alla vecchia realtà delle tenebre, del caldo e del freddo. La
civiltà moderna ci ha procurato la radio, i film in televisione, i locali
da ballo, ed un’enorme varietà di divertimenti meccanizzati con cui
titillarci i sensi ed aiutarci a fuggire dalla evidente noia della terra,
del sole, del vento e delle stelle.
La vela ci riporta a queste antiche realtà. Per molti di quei depressi, la reale fonte del mal
di crociera è che pensavano che la vela fosse una forma di eccitamento
ancor più civilizzato, come andare al cinema o alla partita, ed in
qualche modo sentivano che la loro barca era costretta ad entusiasmarli e
divertirli. Ma nessuna barca sarà mai una fonte inesauribile di svago, e
non è questo che dobbiamo aspettarci da lei. Molte di quelle aspettative probabilmente derivano
dalle uscite in mare che si fanno nel weekend, che offrono un tipo di
soddisfazione ben diverso dal vivere a bordo. In quelle occasioni, è ben
raro che si manifesti la depressione, perché in quei casi navigare è una
pausa di ristoro dopo una settimana di lavoro monotona. Anche il marinaio
della domenica si deprime, esattamente come il velista che vive in barca,
ma gli capita quando è a casa, o al lavoro, e pensa che queste cose siano
la causa della depressione. Quando si ritira a vivere in barca, persevera
nell’errore, pensando: «ora la vita sarà come una serie ininterrotta
di quei weekend». Ovviamente, sbaglia. Non c’è modo di sfuggire al meccanismo della
monotonia. Deriva dalla mancanza di uno stimolo piacevole ed è
inevitabile perché più ricevi stimoli piacevoli, meno sono efficaci.
Ad esempio, se ricevi un dono inatteso di lunedì, sei euforico. Ne
ricevi uno anche di martedì, e lo sei ancora, ma un po’ meno perché è
una ripetizione dell’esperienza del giorno prima. Mercoledì la gioia
cala ancora, e così pure
giovedì e venerdì. Già al sabato ti sei abituato al dono giornaliero
garantito. Quando alla domenica non arriva alcun regalo, ecco che diventi
triste. Il livello di aspettativa si era alzato durante la settimana, e
adesso va di nuovo abbassato. La stessa cosa avviene in crociera. Assisti a
stupendi tramonti, ogni sera, vedi tante palme che oscillano alla brezza
dell’oceano, e tanti chiari di luna tropicali, esotici, profumati di
oleandro e gelsomino… e ti abitui. Non ti donano più gioia. E quando il
piacevole stimolo esterno comincia a calare, la depressione da crociera
prende il suo posto. Ed è a questo punto che si vende la barca ed i sogni
vanno in frantumi. Si può cercare di rilanciare per un po’, cercando
nuove rotte ancora più eccitanti, ma prima o poi il meccanismo della
depressione ti fagocita, e più a lungo l’hai evitato, più forte si
presenta. Ne consegue che il miglior modo di sconfiggere la
depressione da crociera è non scappare. Affrontarla appena arriva,
restarsene semplicemente abbacchiati ad apprezzare il malumore fin tanto
che dura. State sicuri che, in questo modo, lo stesso meccanismo che rende
inevitabile la depressione farà sì che altrettanto inevitabile sia anche
la conseguente euforia. Ogni giorno in cui vi sentirete depressi, vi
abituerete ad esserlo, fino al momento in cui sarà inevitabile uno scatto
verso l’alto del vostro umore. Ogni giorno di depressione sarà come una
moneta messa in banca. Renderà possibili, per contrasto, i giorni di
buonumore. Non esistono montagne senza vallate… allo stesso modo non si
può avere gioia senza tristezza. Senza una combinazione di alti e bassi,
la vita sarebbe una tristissima, infinita pianura. Quando vedi la depressione come una parte
inevitabile della tua vita, diventa possibile studiarla con meno
avversione e scoprire che al suo interno esistono in gran numero
possibilità trascurate. Tanto per cominciare, la depressione ti rende ben
più consapevole dell’impalpabilità dell’ambiente che ti circonda.
Quando sei in un porticciolo sperduto, il verso di un’anatra selvatica
durante un periodo di buonumore non è altro che il verso di un’anatra
selvatica. Ma se sei in uno di quei momenti in cui la depressione ti ha
svuotato la mente, quello strano ed isolato suono può all’improvviso
resuscitare in te un’ondata di consapevolezza di spazi vuoti, di acqua,
di cielo. Sembra strano, ma alcuni dei miei più felici ricordi risalgono
a giorni di massima depressione. Giorni grigi ed interminabili passati al
timone a combattere con un vento umido che gela le ossa. O quei tre giorni
di calma piatta, un’agonia di caldo, tristezza e frustrazione. Giorni in
cui nulla sembrava andare per il verso giusto. Notti in cui non riuscivo a
togliermi dalla testa qualche disastro imminente. Eppure li ricordo come
“giorni virtuosi”, una strana definizione, cui assegno un significato
tutto particolare. Virtù, in questo senso, deriva da alcune mie
letture giovanili: vecchi racconti di navi e giovani uomini che in mare
imparavano virtù e virilità. Ricordo che mi lasciavano un po’
scettico: «Come fa una traversata monotona di una gran massa d’acqua a
produrre virtù?», mi chiedevo. Immaginavo che forse qualche brutta
tempesta potesse spaventare a morte quegli uomini, e renderli umili,
virili, virtuosi ed insegnar loro, da quel momento, ad apprezzare la
vita.… ma mi sembrava un improbabile curriculum. In fondo c’erano
altri modi più a buon mercato e più veloci per spaventare la gente. Ma
adesso che ho una barca tutta mia e un po’ di tempo da passare in mare,
comincio a vedere l’apprendimento della virtù in modo diverso. Ha un po’ a che fare con il modo in cui il mare,
il vento ed il sole durano, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana,
e ci devi convivere. Devi tenere il timone e cambiare le vele e tenere
d’occhio le stelle e calcolare la posizione e dormire e cucinare e
mangiare e riparare i guasti; il tutto, durante tempeste o bonacce,
depresso o euforico; perché, comunque, non hai scelta. Ci si abitua; è una cosa che ti tempra e produce un
certo cambiamento di valori. Un vecchio ingranaggio che passa indenne
attraverso un paio di tempeste, senza guasti, diventa più prezioso di
quando lo avevi comprato, perché, poi, ti fidi di lui. La stessa cosa
accade fra compagni di equipaggio e, in definitiva, per tutto ciò che ci
riguarda. Ciò che appariva
buono a prima vista conta ben poco, mentre si rinforza la vera virtù, che
deriva dall’abilità di separare quel che sembra buono da ciò che dura;
e dalla acquisizione di tali caratteristiche in te stesso. Ma, oltre a ciò, sembra esserci un ulteriore
processo che ti dà la conoscenza della virtù, che è ancora più
profondo; sorge da quel lento processo di scoperta di sé, che interviene
dopo che si passa attraverso diverse ondate di pericoli e depressione, ma
che infine non ha assolutamente più nulla che vedere con tutto questo. La scoperta di te stesso è imponderabile tanto
quanto la realtà, ma quando si accantonano gli stimoli esterni della
civiltà per passare lunghe ore di oceano al timone, lontano da terra,
specialmente in una notte buia, ogni velista sa che ciò che accade non è
una serata buia. Al suo posto
arriva un flusso di pensieri, spinti dal vuoto della notte. Si ripresenta quel poco che è accaduto durante il giorno; lo
ripensi per qualche minuto, poi svanisce e ritorna dopo un altro po’,
con meno forza; e, forse, un’altra volta ancor più debole, fino a che
non muore del tutto, e non ci pensi più. Allora riappaiono ricordi ancor
più vecchi, della settimana prima, del mese prima, di anni prima, e ci
rimugini sopra, spesso incrociandoli con intuizioni nuove. Un problema che
nel passato ti sconcertava, adesso lo risolvi in un batter d’occhio; ci
sono nuove idee che sembrano apparire dal nulla, perché i rigidi schemi
mentali con cui le hai trattenute si sono indeboliti sotto l’azione del
vuoto e della depressione. Col
tempo anche questi nuovi pensieri trovano casa, e la notte vuota scava
ancor più profondo nel tuo subconscio
per estrarre antichi pensieri dimenticati, repressi anni prima.
Riaffiorano vecchie ingiustizie che hai dovuto ingoiare, volti
dimenticati, antichi sentimenti di dubbio, rimorso, odio
e paura. Li devi affrontare di nuovo, finché non svaniscono, come
i pensieri che li avevano preceduti.
Questo “te stesso” che scopri è per molti versi una persona
che non vorresti come amico; una persona che hai evitato per anni;
vanitoso, codardo, noioso, piagnucolone, pigro e riprovevole; debole
quando c’era bisogno d’esser forti, aggressivo quando doveva essere
gentile; una persona che ha fatto di tutto per non sapere di sé tutte
quelle cose; proprio quella persona che ha avuto tutti quei problemi di
depressione da crociera, per
tutto questo tempo. Credo che sia nel confronto con questa persona,
giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, che avvenga il più profondo
apprendimento di virtù. Se ti concedi abbastanza tempo, proprio l’oceano
può essere il tuo più grande alleato nell’impresa di affrontare quella
persona. Quando si vive giorno dopo giorno sulla superficie dell’oceano,
e lo si vede a volte terribile e pericoloso, a volte tranquillo e lento,
ma sempre, ogni giorno ed ogni settimana, infinito in ogni direzione,
lentamente si fa largo una certa conoscenza di sé; riflessa sulle onde;
forse, sorta dalle onde.
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