MOQ / Italia Online: Forum

Mal di crociera? Ecco la cura

di Robert Pirsig

titolo originale: Cruising blues and their cure
Articolo pubblicato sulla rivista Esquire,  nel maggio del 1977

Un caso tipico. Dopo quattro anni di duro lavoro avevano varato il loro trimarano d’altura a Minneapolis, all’inizio del tratto navigabile del Mississippi. Ci vollero sei mesi e mezzo per scendere il fiume ed attraversare il golfo, fino alla Florida, dove si fermarono a sistemare gli ultimi dettagli. E poi da lì salparono, diretti alla volta delle Bahamas, delle Piccole Antille e dell’America del sud.

Solo che non funzionò. Dopo sei settimane erano già alla frutta. Riportarono la barca in Florida e la misero in vendita.

Scrissero al giornale della loro città:

«Volevamo fare cose diverse. Ognuno di noi aveva un sogno incompiuto, un posto da visitare, una cosa da fare. E l’imbarazzante risultato è che la grande fuga è durata, in tutto, otto mesi. Detta così, non sembra proprio che siamo stati ripagati dei nostri quattro anni di lavoro».

«E’ che quasi tutti eravamo arrivati al limite della sopportazione; eravamo in overdose da vacanza. Forse non siamo quegli spiriti liberi che credevamo di essere; ogni isola che visitavamo ci sembrava peggio della precedente».

 «E pensavamo al ritorno a casa».

Cambiate il punto di partenza: Sacramento, o Cincinnati o uno qualunque dei mille posti in cui, nell’animo di sognatori bloccati dalla terraferma e dal lavoro, abbonda la speranza di navigare per il mondo; aggiungete le migliaia di coppie che per anni si sono astenute dallo spendere in acqua i loro weekend,  per potersi permettere, un giorno, di ritirarsi a fare vita di mare... e finiscono per vendere la barca dopo sei mesi; cambiate il tipo e la stazza della barca, l’età o il passato dei protagonisti, e avrete la solita storia, già sentita un’infinità di volte fra chi va a vela: sogni romantici di tutta una vita, distrutti da quel male psicologico che più di ogni altro ha chiuso la carriera di tantissimi velisti: la depressione da crociera.

A St. Thomas, nelle Isole Vergini, una coppia di coniugi aveva appena deciso di vendere la barca e tornarsene a casa. «Non so cos’è che stavamo cercando», disse lei, «ma qualunque cosa fosse, non l’abbiamo trovata in barca. Speravamo di realizzare il sogno di una vita, ma adesso, se ripenso a quei giorni… beh, certo, abbiamo passato momenti stupendi, ma per lo più si è trattato di duro lavoro e problemi. Molti più che se ce ne fossimo restati a casa ».

In un altro caso fu il marito a dire: «Ci siamo ritrovati a darci sui nervi l’un l’altro, tanto eravamo costretti a stare insieme ogni giorno. Non ci eravamo mai resi conto che per godere della compagnia di qualcuno c’è bisogno anche di momenti di separazione. Per anni siamo usciti in mare nei weekend, o per brevi vacanze… ma vivere insieme a bordo non è la stessa cosa».

Frasi come queste che raccontano la depressione da crociera variano a seconda delle persone, ma nella maggior parte dei casi ci raccontano lunghi periodi di silenzio in persone che prima erano generalmente ciarliere; seguiti da un sentimento di tristezza travolgente, che, all’inizio, non sembra avere cause specifiche; poi, al contrario, sembra avere molte cause diverse: «’sta barca è sempre guasta»; o… «qui va tutto a rotoli».

Considerando il gran numero di cose che si possono guastare, è piuttosto normale che si rompa qualcosa, ma in quei momenti non c’è il tempo o l’attrezzatura per effettuare grandi riparazioni, e la manutenzione della barca richiede un’enorme quantità di lavoro non previsto.  Così, ogni minima rottura - una pompa che non funziona, un’elica allentata, un verricello danneggiato - sembra una catastrofe, che, nelle lunghe ore al timone in cui il problema non è ancora stato risolto, nella mente s’ingigantisce ancora di più.

I soldi fanno presto ad andarsene. La maggior parte dei supermarket è troppo lontana dalla barca per poterci andare a piedi. Gli empori dei porti sembra che si divertano a caricare sui prezzi. Quando si tratta di soldi, quello è sempre un problema; ma mentre prima era una specie di sfida, adesso è diventato fonte di disperazione. Un marinaio serio riesce a trovare i soldi, in un modo o nell’altro; di solito accettando, di buon grado, qualche lavoretto nella zona del porto: è la sua barca a dargli un motivo per lavorare. Ma quando si ha l’impressione che sia la barca stessa a non essere “di buon grado” non c’è più nulla da fare.

La gente è più scontrosa, rispetto a casa. Là erano tutti gioviali, ma adesso il mal di crociera ha disegnato cipiglio e preoccupazione sul viso del navigante, e questo aiuta la gente a tenersi ancor più alla larga.

Tutto questo è una fuga dalla realtà. Non ci si accorge mai di quanto possa essere buono il lavoro in ufficio, dalle nove alle cinque orario continuato. Piccole cose: quelli che ti salutano il mattino, il capo che ti ferma per chiederti un’opinione di cui ha veramente bisogno. Vedere i vecchi amici, i vicini dall’aria così familiare, le strade nelle quali hai vissuto per una vita.  Perché mai fuggire da tutto ciò? Forse navigare insegna proprio ad apprezzare quel mondo reale che di solito percepiamo opprimente.

Quest’ultimo sintomo, il desiderio di “ritornare alla realtà”, l’ho trovato in quasi tutti i casi di mal di crociera, e forse è la chiave di tutto quel tormento. Se uno riesce a sopportare la cosa per un po’, capisce chiaramente che quella è la fonte profonda di tutti i guai.

Per prima cosa, bisognerebbe chiedere a quelli che si sentono depressi da dove hanno preso l’idea che la crociera potesse essere una fuga dalla realtà. Chi glielo ha detto, e cosa intendeva? Scienziati e filosofi spendono il lavoro di una vita a scervellarsi sulla natura della realtà, e questi “depressi” usano il termine così, come se tutti lo conoscessero, e come se ci fosse accordo su ciò che significa.

Mi sembra di capire che la realtà sia, per loro, il modo nel quale hanno vissuto la vita di ogni giorno prima di prendere il mare; a differenza della navigazione a vela, in quel modo vive la maggior parte dei membri della nostra civiltà. Di solito si tratta di un impiego ben pagato, in una qualche struttura economica, piuttosto allineata con le norme ed i costumi della società. In poche parole, quel ritorno è un ritorno al gregge.

Non è difficile capire l’assurdità. Lo schema casa-macchina-lavoro con la sua routine da ufficio è in realtà comune ad una piccola percentuale della popolazione del pianeta, e a questa percentuale è divenuto comune sì e no da un secolo. Se questa è la realtà, i milioni di anni che l’hanno preceduta cos’erano: irreali?

Una definizione alternativa, e migliore, di realtà, la possiamo trovare dando dei nomi ad alcune delle cose che la compongono… aria… sole… vento… acqua… le onde… le figure delle nuvole prima di una tempesta. Questi elementi, a differenza della routine impiegatizia del ventesimo secolo, sono sempre esistiti, prima che apparisse la vita sul pianeta, e ci saranno anche dopo l’estinzione degli uffici e della loro routine. Sono conosciuti da tutti, non soltanto da un piccolo segmento di una società avanzata. Se li consideriamo sulla base della pura logica, sono ben più reali di quegli stili di vita così transitori della civiltà moderna cui i nostri depressi vogliono tornare.

Se le cose stanno così, ne consegue che coloro che vedono la vela come una fuga dalla realtà hanno inteso il significato della vela e della realtà esattamente al contrario. Andar per mare non è una fuga, ma un ritorno alla realtà; a confrontarsi con una cosa da cui la civiltà moderna stessa è invece in fuga.

Per secoli l’uomo ha sopportato la realtà di un pianeta che era troppo buio, o troppo caldo, o troppo freddo; e per fuggire da esso ha inventato complessi sistemi per l’illuminazione, il riscaldamento, l’aria condizionata. La vela rifiuta il tutto e ci riporta alla vecchia realtà delle tenebre, del caldo e del freddo. La civiltà moderna ci ha procurato la radio, i film in televisione, i locali da ballo, ed un’enorme varietà di divertimenti meccanizzati con cui titillarci i sensi ed aiutarci a fuggire dalla evidente noia della terra, del sole, del vento e delle stelle.   La vela ci riporta a queste antiche realtà.

Per molti di quei depressi, la reale fonte del mal di crociera è che pensavano che la vela fosse una forma di eccitamento ancor più civilizzato, come andare al cinema o alla partita, ed in qualche modo sentivano che la loro barca era costretta ad entusiasmarli e divertirli. Ma nessuna barca sarà mai una fonte inesauribile di svago, e non è questo che dobbiamo aspettarci da lei.

Molte di quelle aspettative probabilmente derivano dalle uscite in mare che si fanno nel weekend, che offrono un tipo di soddisfazione ben diverso dal vivere a bordo. In quelle occasioni, è ben raro che si manifesti la depressione, perché in quei casi navigare è una pausa di ristoro dopo una settimana di lavoro monotona. Anche il marinaio della domenica si deprime, esattamente come il velista che vive in barca, ma gli capita quando è a casa, o al lavoro, e pensa che queste cose siano la causa della depressione. Quando si ritira a vivere in barca, persevera nell’errore, pensando: «ora la vita sarà come una serie ininterrotta di quei weekend». Ovviamente, sbaglia.

Non c’è modo di sfuggire al meccanismo della monotonia. Deriva dalla mancanza di uno stimolo piacevole ed è inevitabile perché più ricevi stimoli piacevoli, meno sono efficaci.  Ad esempio, se ricevi un dono inatteso di lunedì, sei euforico. Ne ricevi uno anche di martedì, e lo sei ancora, ma un po’ meno perché è una ripetizione dell’esperienza del giorno prima. Mercoledì la gioia cala ancora,  e così pure giovedì e venerdì. Già al sabato ti sei abituato al dono giornaliero garantito. Quando alla domenica non arriva alcun regalo, ecco che diventi triste. Il livello di aspettativa si era alzato durante la settimana, e adesso va di nuovo abbassato.

La stessa cosa avviene in crociera. Assisti a stupendi tramonti, ogni sera, vedi tante palme che oscillano alla brezza dell’oceano, e tanti chiari di luna tropicali, esotici, profumati di oleandro e gelsomino… e ti abitui. Non ti donano più gioia. E quando il piacevole stimolo esterno comincia a calare, la depressione da crociera prende il suo posto. Ed è a questo punto che si vende la barca ed i sogni vanno in frantumi. Si può cercare di rilanciare per un po’, cercando nuove rotte ancora più eccitanti, ma prima o poi il meccanismo della depressione ti fagocita, e più a lungo l’hai evitato, più forte si presenta.

Ne consegue che il miglior modo di sconfiggere la depressione da crociera è non scappare. Affrontarla appena arriva, restarsene semplicemente abbacchiati ad apprezzare il malumore fin tanto che dura. State sicuri che, in questo modo, lo stesso meccanismo che rende inevitabile la depressione farà sì che altrettanto inevitabile sia anche la conseguente euforia. Ogni giorno in cui vi sentirete depressi, vi abituerete ad esserlo, fino al momento in cui sarà inevitabile uno scatto verso l’alto del vostro umore. Ogni giorno di depressione sarà come una moneta messa in banca. Renderà possibili, per contrasto, i giorni di buonumore. Non esistono montagne senza vallate… allo stesso modo non si può avere gioia senza tristezza. Senza una combinazione di alti e bassi, la vita sarebbe una tristissima, infinita pianura.

Quando vedi la depressione come una parte inevitabile della tua vita, diventa possibile studiarla con meno avversione e scoprire che al suo interno esistono in gran numero possibilità trascurate. Tanto per cominciare, la depressione ti rende ben più consapevole dell’impalpabilità dell’ambiente che ti circonda. Quando sei in un porticciolo sperduto, il verso di un’anatra selvatica durante un periodo di buonumore non è altro che il verso di un’anatra selvatica. Ma se sei in uno di quei momenti in cui la depressione ti ha svuotato la mente, quello strano ed isolato suono può all’improvviso resuscitare in te un’ondata di consapevolezza di spazi vuoti, di acqua, di cielo. Sembra strano, ma alcuni dei miei più felici ricordi risalgono a giorni di massima depressione. Giorni grigi ed interminabili passati al timone a combattere con un vento umido che gela le ossa. O quei tre giorni di calma piatta, un’agonia di caldo, tristezza e frustrazione. Giorni in cui nulla sembrava andare per il verso giusto. Notti in cui non riuscivo a togliermi dalla testa qualche disastro imminente. Eppure li ricordo come “giorni virtuosi”, una strana definizione, cui assegno un significato tutto particolare.

Virtù, in questo senso, deriva da alcune mie letture giovanili: vecchi racconti di navi e giovani uomini che in mare imparavano virtù e virilità. Ricordo che mi lasciavano un po’ scettico: «Come fa una traversata monotona di una gran massa d’acqua a produrre virtù?», mi chiedevo. Immaginavo che forse qualche brutta tempesta potesse spaventare a morte quegli uomini, e renderli umili, virili, virtuosi ed insegnar loro, da quel momento, ad apprezzare la vita.… ma mi sembrava un improbabile curriculum. In fondo c’erano altri modi più a buon mercato e più veloci per spaventare la gente. Ma adesso che ho una barca tutta mia e un po’ di tempo da passare in mare, comincio a vedere l’apprendimento della virtù in modo diverso.

Ha un po’ a che fare con il modo in cui il mare, il vento ed il sole durano, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, e ci devi convivere. Devi tenere il timone e cambiare le vele e tenere d’occhio le stelle e calcolare la posizione e dormire e cucinare e mangiare e riparare i guasti; il tutto, durante tempeste o bonacce, depresso o euforico; perché, comunque, non hai scelta.

Ci si abitua; è una cosa che ti tempra e produce un certo cambiamento di valori. Un vecchio ingranaggio che passa indenne attraverso un paio di tempeste, senza guasti, diventa più prezioso di quando lo avevi comprato, perché, poi, ti fidi di lui. La stessa cosa accade fra compagni di equipaggio e, in definitiva, per tutto ciò che ci riguarda.  Ciò che appariva buono a prima vista conta ben poco, mentre si rinforza la vera virtù, che deriva dall’abilità di separare quel che sembra buono da ciò che dura; e dalla acquisizione di tali caratteristiche in te stesso.

Ma, oltre a ciò, sembra esserci un ulteriore processo che ti dà la conoscenza della virtù, che è ancora più profondo; sorge da quel lento processo di scoperta di sé, che interviene dopo che si passa attraverso diverse ondate di pericoli e depressione, ma che infine non ha assolutamente più nulla che vedere con tutto questo.

La scoperta di te stesso è imponderabile tanto quanto la realtà, ma quando si accantonano gli stimoli esterni della civiltà per passare lunghe ore di oceano al timone, lontano da terra, specialmente in una notte buia, ogni velista sa che ciò che accade non è una serata buia.  Al suo posto arriva un flusso di pensieri, spinti dal vuoto della notte.  Si ripresenta quel poco che è accaduto durante il giorno; lo ripensi per qualche minuto, poi svanisce e ritorna dopo un altro po’, con meno forza; e, forse, un’altra volta ancor più debole, fino a che non muore del tutto, e non ci pensi più. Allora riappaiono ricordi ancor più vecchi, della settimana prima, del mese prima, di anni prima, e ci rimugini sopra, spesso incrociandoli con intuizioni nuove. Un problema che nel passato ti sconcertava, adesso lo risolvi in un batter d’occhio; ci sono nuove idee che sembrano apparire dal nulla, perché i rigidi schemi mentali con cui le hai trattenute si sono indeboliti sotto l’azione del vuoto e della depressione.  Col tempo anche questi nuovi pensieri trovano casa, e la notte vuota scava ancor più profondo nel tuo  subconscio per estrarre antichi pensieri dimenticati, repressi anni prima. Riaffiorano vecchie ingiustizie che hai dovuto ingoiare, volti dimenticati, antichi sentimenti di dubbio, rimorso, odio  e paura. Li devi affrontare di nuovo, finché non svaniscono, come i pensieri che li avevano preceduti.  Questo “te stesso” che scopri è per molti versi una persona che non vorresti come amico; una persona che hai evitato per anni; vanitoso, codardo, noioso, piagnucolone, pigro e riprovevole; debole quando c’era bisogno d’esser forti, aggressivo quando doveva essere gentile; una persona che ha fatto di tutto per non sapere di sé tutte quelle cose; proprio quella persona che ha avuto tutti quei problemi di depressione da crociera,  per tutto questo tempo.

Credo che sia nel confronto con questa persona, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, che avvenga il più profondo apprendimento di virtù.

Se ti concedi abbastanza tempo, proprio l’oceano può essere il tuo più grande alleato nell’impresa di affrontare quella persona. Quando si vive giorno dopo giorno sulla superficie dell’oceano, e lo si vede a volte terribile e pericoloso, a volte tranquillo e lento, ma sempre, ogni giorno ed ogni settimana, infinito in ogni direzione, lentamente si fa largo una certa conoscenza di sé; riflessa sulle onde; forse, sorta dalle onde.

Comprendi questo: che tu sia annoiato  o eccitato, depresso o euforico, vittorioso o sfortunato, addirittura vivo o morto, tutto ciò non ha assolutamente nessuna conseguenza.  Il mare continua a raccontartelo ad ogni passaggio di ogni onda. E quando accetti  questa conoscenza di te, e non la contesti, e vai avanti comunque, ecco che arriva una vera pienezza di virtù e di autocoscienza. E spesso, al suo arrivo la si accompagna con una gustosa risata. Alla fine, la vecchia realtà del mare ha ridotto il mal di crociera alla sua reale prospettiva.


Torna al forum

flguk.gif (965 byte)

English Version